Grammatica dell'integrazione. Italiani e stranieri a scuola insieme di Vinicio Ongini Laterza, 2019 pp. 162 € 16 (cartaceo) € 9,99 (ebook) CLICCA QUI PER COMPRARE IL LIBRO |
Quando si parla di "integrazione" si pensa subito anche alla scuola, alle classi cosiddette "miste", di cui spesso si discute l'efficacia. Non sono rare le preoccupazioni delle famiglie quando scoprono che i loro figli avranno molti compagni stranieri, ma da dove arriva quest'ansia? È giustificata? E soprattutto, cosa si può fare per cambiare le cose, senza... cambiare classe? Nel nuovo saggio, Grammatica dell'integrazione, appena uscito per Laterza, Vinicio Ongini mostra quale sia la situazione e soprattutto come si possano unire le esigenze di tutti, in classe, se cominciamo a cambiare il nostro punto di vista: anziché fare "per" gli stranieri, fare "con", ovvero integrare le varie competenze e le esperienze di tutti, per un arricchimento globale.
Il libro, che si presenta fresco nella veste dei singoli capitoli e altamente propositivo, racconta di progetti felici che dimostrano come non siano le barriere a giovare, ma come invece attività pratiche, sportive, musicali, artistiche siano un ponte perfetto, che consente di superare difficoltà linguistiche in nome di un obiettivo comune.
Incuriositi dall'approccio molto pragmatico del testo e dalle tante esperienze raccontate, abbiamo pensato di rivolgere alcune domande a Vinicio Ongini, che dopo l'esperienza di maestro elementare è passato da anni a lavorare per il MIUR, occupandosi proprio di integrazione degli alunni stranieri.
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Quali pregiudizi sugli studenti stranieri sono ancora fortemente radicati nella nostra scuola?
Un primo pregiudizio è quello di considerarli “stranieri”: su 850.000 alunni e studenti con cittadinanza non italiana (è la definizione del nostro sistema statistico), più del 63% sono nati in Italia e la percentuale nelle scuole dell’infanzia è dell’85%. Perché chiamarli e “pensarli” sempre indistintamente come “stranieri”?! Bisogna distinguere, distinguere è un verbo importante. C’è chi è appena arrivato, non conosce la lingua italiana, le regole della scuola, è disorientato, e c’è chi parla la lingua italiana, con le “nostre” inflessioni dialettali, e si sente italiano.
Un altro pregiudizio o meglio una preoccupazione, che coinvolge anche le famiglie italiane, è di pensare che gli alunni e gli studenti stranieri siano, automaticamente, un peso per la classe, una presenza che rallenta il programma, una componente più debole quindi bisognosa d’aiuto. È vero: la scuola e la classe con alunni e studenti stranieri è più complessa, richiede più risorse. Ma è anche, se adeguatamente gestito, se con insegnanti competenti, un contesto più dinamico, più ricco di occasioni cognitive e di scambi. Un esempio: l’ultima indagine Invalsi, sui risultati degli studenti, ha evidenziato che gli studenti stranieri sono bravi quanto gli italiani e in alcune regioni più degli italiani nell’apprendimento della lingua inglese.
Quanto è importante per i bambini provenienti dall’estero mantenere vivo l’uso della propria lingua d’origine?
Sostengono i linguisti che consapevolezza e competenza, anche minime, nella propria lingua d’origine, o lingua materna, sono condizioni che facilitano l’apprendimento di una nuova lingua. Quindi per un bambino straniero conoscere qualcosa della propria lingua materna è di aiuto nell’apprendimento dell’italiano.
C’è un’altra ragione: conoscere la propria lingua d’origine facilita i rapporti tra le generazioni, con i genitori o i nonni, rimasti spesso nel paese d’origine dei ragazzi che vivono in Italia. Rafforza l’identità personale che è sfaccettata. Dice Alex, un bambino di una scuola di Perugia: “Io uso il romeno con i miei genitori e con la mediatrice culturale, con Dan che è più grande di me. A volte leggo il giornale romeno con mio papà. L’italiano, lo uso per parlare con i compagni, con la maestra, per guadare la tv, per studiare…”
Nell’introduzione al libro, si legge che è necessario fare più cose “con” gli studenti stranieri, che “per” gli studenti stranieri. Ci può fare degli esempi?
La preposizione semplice “per” introduce spesso uno sguardo e una prospettiva a senso unico: che cosa possiamo fare per i migranti?, che cosa facciamo per gli studenti stranieri?, di cosa hanno bisogno?... Come se fossero un segmento debole, fragile, che ha solo bisogno di aiuto. Manca o è insufficiente la consapevolezza della possibilità di uno scambio di un’interazione e un confronto vantaggioso per tutti, manca l’idea che anche noi possiamo ricevere, la consapevolezza che una cittadinanza nuova si costruisce CON. Un esempio di cui parlo nel capitolo Chi insegna a chi? I minori stranieri non accompagnati e noi: la scuola di italiano dell’università di Palermo ha organizzato classi con studenti Erasmus, provenienti dall’Europa, e studenti minori non accompagnati arrivati via mare, dall’Africa o altri paesi. Sono partiti dall’idea che i due gruppi, così diversi, avevano ciascuno un punto di forza, una competenza da scambiare con l’altro: gli Erasmus bravi nelle lingue scritte, i minori non accompagnati nelle lingue orali, i primi abituati ad essere protetti, i secondi più abituati alle avversità, più resilienti. Alcuni di questi giovani stranieri, ha detto una docente palermitana, conoscono l’epica e l’avventura e la nostalgia, hanno fatto più viaggi di Ulisse…
Analizzando i dati sulla dispersione scolastica, si nota che le ragazze straniere hanno solitamente migliori risultati dei maschi, ma sono più portate all’abbandono scolastico nella scuola secondaria. Da cosa dipende questo? Possiamo porvi un freno?
È vero, in generale le studentesse straniere ottengono risultati migliori dei maschi, sono propense a percorsi scolastici più lunghi dei maschi, verso i diplomi e le lauree ma se si prendono in considerazione i dati sui Neet, i giovani che non studiano e non lavorano, che abbandonano qualunque tipo di percorso formativo, si scopre che tra gli stranieri sono soprattutto femmine. Significa che il potenziale delle alunne straniere rispetto ai maschi alla lunga distanza trova ostacoli. Incidono in questo dato rappresentazioni ed elementi culturali, di alcuni gruppi di immigrazione, che scoraggiano le ragazze dal proseguire gli studi. I dati più negativi sono nelle comunità marocchine, bengalesi, indiane, pakistane, cingalesi. Serve un lavoro di coinvolgimento delle comunità e delle famiglie sull’importanza dell’istruzione, per tutti, anche attraverso i mediatori culturali e le associazioni. Il concorso del ministero dell’istruzione, insieme all’autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, per il trentennale della convenzione ONU sui diritti dell’infanzia, che ricorre il 20 novembre del 2019, porta nel titolo una frase pronunciata da Malala, giovane di origine pakistana, fuggita dal regime dei talebani, quando le fu assegnato il premio Nobel per la Pace: “Un bambino, un insegnante, un libro e una penna possono cambiare il mondo”.
“Fornire agli studenti la bussola delle parole” è tra i principali compiti della scuola di oggi: in cosa consiste e come raggiungere questo importante obiettivo?
Nell’anno 2018 alcuni istituti superiori di Torino, Roma e Bari hanno partecipato a un progetto, Buon senso, che li ha visti protagonisti di vere e proprie sfide di parole, dispute con regole e squadre attorno a temi controversi, per esempio l’immigrazione. Le tesi contrapposte avevano uguale dignità e diritto di espressione, a patto di essere motivate e documentate. L’opposto di quello che avviene nel ring politico nazionale. La scuola può fare molto: ascoltare l’altro, tener conto del punto di vista altrui è un’abilità da coltivare perché costitutiva della cittadinanza e della partecipazione democratica.
La musica e lo sport possono essere ottimi modi per entrare in sintonia e soprattutto imparare a fare insieme, abbattendo i pregiudizi. Ci sono progetti a cui ha preso parte che vuole segnalarci per la loro efficacia?
In un quartiere della periferia di Roma, Tor bella Monaca, un insegnante e scrittore Emiliano Sbaraglia, che fa parte dell’associazione “Piccoli maestri” racconta che la passione comune di ragazzi italiani e stranieri per il gioco del calcio ha fatto lezioni di legalità sul campo: senza rispetto di regole condivise non si può giocare, non ci si diverte, il gioco non funziona. In un’altra scuola il lessico del gioco che i ragazzi stranieri conoscono abbastanza anche se non padroneggiano bene la lingua italiana è servito per fare “lezioni” di lingua e di matematica: i campi da calcio, basket, pallavolo sono figure geometriche. Le aree, le distanze, la precisione, i passi da fare appartengono alla conoscenza scientifica! Lo stesso discorso vale per la musica. Un coro, una banda musicale è come una squadra: richiede cooperazione, condivisione. Richiede una Grammatica dell’integrazione!
Per finire, le pongo una domanda che abbiamo rivolto a tanti dei nostri ospiti di questa rubrica: se avesse una bacchetta magica e potesse cambiare una cosa della scuola italiana, all’istante, cosa sceglierebbe? Come la trasformerebbe e perché?
Non vorrei una bacchetta magica, vorrei un turbante magico, come quello delle donne africane del laboratorio di sartoria sociale SU(L)LA TESTA di Ancona, fabbricati per le donne in cura oncologica, o quello degli indiani sikh che lavorano nella pianura padana, tra Brescia, Cremona e Mantova o nella pianura pontina del basso Lazio o in quella campana di Eboli e Battipaglia.
Vorrei che nelle scuole ci fossero lezioni di umorismo (lo scrittore israeliano Amoz Oz nel suo libro Contro il fanatismo dice che un fanatico lo riconosci dalla mancanza di senso dell’umorismo).
E vorrei che ci fosse un orto in ogni scuola per “coltivare” visioni, per “coltivare” utopie concrete.
Per non smettere di provare a fare il mondo come dovrebbe essere.
Ringraziamo Vinicio Ongini per aver partecipato alla nostra rubrica #SpecialeSCUOLA e vi ricordiamo che Grammatica dell'integrazione è disponibile in libreria o anche qui.
Intervista a cura di GMGhioni