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Quarant'anni di convivenza con il tenente Ellen Ripley e uno xenomorfo: Boris Battaglia racconta "Alien" di Ridley Scott e i suoi effetti sul nostro sguardo sulla realtà

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Alien.
Nascita di un nuovo immaginario

di Boris Battaglia
Armillaria, 2019

pp. 140
€ 12,00 (cartaceo)



Impauriti, barricati, solitari: è così che ci vuole una delle descrizioni meno ottimistiche del nostro tempo. Minacciati dall’altro e dal diverso, abili costruttori di muri e recinzioni, paghi della nostra compagnia o di quella che più ci somiglia, sconteremmo (con gli interessi) la pena di un narcisismo malinteso, di un ripiegamento su noi stessi che muove da un terrore profondo per ciò che non conosciamo e non controlliamo (fuori come dentro di noi). Un orizzonte evidentemente scoraggiante, di sospetto e chiusura, e che può essere osservato da molteplici punti di vista per comprenderne origini, ragioni, torti e contraddizioni. Tra le chiavi di lettura privilegiate, come spesso accade quando si ha a che fare con le questioni legate allo sguardo sulla realtà, c’è il cinema, che a partire dalla sua fondazione ha sempre movimentato lo spirito dei tempi in modo centrifugo e centripeto, risucchiando umori sociali e culturali e riproponendoli sottospecie di sogni come anche di incubi. Al punto che ci sono stati film capaci di segnare le epoche, creando soglie critiche per comprendere il passato, analizzare il presente, profetizzare il futuro. Tra questi, secondo Boris Battaglia, un posto d’onore spetta ad Alien, lungometraggio di Ridley Scott uscito nelle sale nel 1979 e ancora oggi in grado di dare conto di ciò che siamo diventati (o forse di ciò che siamo sempre stati e abbiamo solo confermato di essere).

Tante e tali sarebbero le intuizioni di questo capolavoro della settima arte da farlo finire al centro di un pamphlet appena pubblicato da Armillaria: centoquaranta pagine organizzate godardianamente a ritroso, dai Titoli di coda ai Titoli di testa, con un’analisi cha prende le mosse dall’oggi per tornare indietro a quarant’anni fa e dunque al periodo di uscita del film, quando l’autore, habitué dello Zenit e del Magenta – storici cinema milanesi di seconda e terza visione – subì lo shock di una pellicola che metteva in crisi la questione fondamentale dello sguardo, quello che si ha su di sé, sull’altro da sé e sull’altro da sé in sé (con buona pace degli scioglilingua). Sebbene comodamente inquadrabile all’interno del sistema dei generi hollywoodiano alla voce sci-fi horror, il lavoro di Scott andrebbe difatti ben oltre le più ovvie stereotipie del caso, e l’intenzione di Boris Battaglia è proprio quella di dimostrare a un lettore-spettatore costantemente chiamato in causa (nonché esortato a vedere e rivedere il film stesso) l’ingenuità di un’interpretazione così riduttiva:
«anche se l’idea da cui prenderà vita il film è stata ispirata da un racconto horror, Alien non è un film horror […] Alien non è un film di paura, è un grande film sulla paura […] Non fa paura, e sarebbe un ben misero film se il suo compito fosse questo. No, Alien fa un’altra cosa: ci racconta com’è costruita e di cosa è fatta la nostra paura» (p. 64).
La paura: uno stato d’animo, si capisce, che al tramonto degli anni Settanta e all’alba degli Ottanta era un fattore evidentemente generazionale, e che nel corso dei decenni sarebbe andato incontro a una maturazione di cui oggi, nella peggiore delle prospettive, certifichiamo lo stadio cronico se non addirittura terminale. Niente a che fare, dunque, con l’ottimismo dei decenni precedenti e nemmeno con quello che anima un altro cult movie spartiacque come E.T. (1982) di Steven Spielberg: nel lavoro di Scott la questione del rapporto con l’alterità è tutta sotto il segno della minaccia, del pericolo, del conflitto, di una solitudine peggiore della morte, se è vero che «il risultato di avere cercato il contatto con ciò che si conosce è questo: rimanere soli» (p. 61). Ma c’è di più: lungi dal dipendere dalla sola efficacia della trama, secondo Boris Battaglia il successo del film sarebbe debitore della perizia con cui il regista non si sarebbe legato opportunisticamente agli effetti speciali e ai colpi di scena, bensì alla pura disciplina cinematografica, vale a dire alla «continua percezione dell’altro resa attraverso una frammentazione strutturale dei sensi», tramite un uso del montaggio che «frammenta il nostro sguardo in tutti i sensi che lo compongono» (p. 32-33). In questo, ovvero di una sistema di sguardi e di punti di vista altamente simbolico, sta, secondo l’autore, tutta l’immortalità di una pellicola i cui effetti splatter, al contrario, muovono più al riso più che al grido lo spettatore contemporaneo: «se Alien è ancora un film attualissimo è proprio per come viene mostrato quello che c’è da mostrare, ovvero la nostra paura del contatto» (p. 88).

Nell’ambito di un’argomentazione che ripercorre la genesi del lungometraggio e che viene portata avanti con vivacità facendo convivere concettualmente Antigone e Star Trek, l’autostop e Point Break, non poche pagine sono dedicate da Boris Battaglia a uno dei punti chiave dell’intera questione, ovvero alla figura dello xenomorfo, la creatura mostruosa al centro del film le cui caratteristiche testimoniano un mutamento di sensibilità nei confronti della vita extraterrestre e di ciò che essa ha idealmente rappresentato e ancora rappresenta. Se da esso scaturirà un nuovo potentissimo immaginario, con caratteristiche del tutto inedite, è perché lo xenomorfo non ha nulla in comune con le creature dei precedenti film di fantascienza: è un mostro ma è anche
«una lucidissima sintesi dei peggiori aspetti dell’uomo […] è un costrutto immaginativo primordiale, che irrompe con inaudita e reale violenza nel nostro immaginario, e attraverso il quale ci è possibile indagare ciò che ci rende più umani: la paura di noi stessi. Non si scappa: lo xenomorfo, nome che gli autori del film anno mutuato dalla mineralogia, dove indica cristalli che non si sviluppano con la forma che dovrebbero avere a causa dell’interferenza di altri minerali, siamo noi con forma diversa. Ma al contempo lo xenomorfo è altro da noi […] Lo xenomorfo è privo di occhi» (pp. 87-88).
Scritto con lo stile franco e diretto tipico dell’autore, e dunque anche con lo stesso tono disinvolto e irriverente con cui sempre ama discorrere di ciò che lo appassiona (dal cinema alla musica: si veda a tale proposito la sua pubblicazione su Serge Gainsbourg, Niente è già tanto, uscita sempre per Armillaria lo scorso anno), il saggio di Boris Battaglia trova i suoi lettori ideali nei cultori del film in questione e dei cinefili in generale, ma anche in coloro che non hanno paura delle interrogazioni profonde, quelle che mettono in gioco le presunte certezze relative al concetto di identità. Sempre cruciale, sempre attuale, sempre scomoda, la domanda sul chi siamo noi e chi sia l’altro esplode nel volumetto con un effetto speciale a grappolo, a domino, a cascata: queste pagine si prendono la briga di ricordarci perché il film di Ridley Scott abbia rappresentato una cesura nel nostro immaginario, privandoci dell’illusione che sia possibile conservarsi immuni dal contatto con il prossimo e il diverso e dalle sue implicazioni e conseguenze critiche, soprattutto quando questa diversità è prossima al punto da abitarci ed essere già parte di noi. Si finisce dunque così, con un dito puntato che non chiede l’attenzione né per se stesso né per un’eventuale luna (o altra galassia) da contemplare: a venire indicato e interpellato è proprio il lettore, affinché si guardi bene allo specchio e ritrovi nei suoi lineamenti quelli di Sigourney Weaver, protagonista nei panni del tenente Ellen Ripley, eroina che “si salva da sola”, unica superstite dell’equipaggio dell’astronave Nostromo:
«lo aveva già capito Flaubert, no? Anche se Emma Bovary è e resta donna, Flaubert può essere lei. Quindi non c’è da stupirsi se Ridley Scott ci dice: il tenente Ripley sono io! Perché anch’io sono il tenente Ripley, e lo sei anche tu» (p. 97).
Come certi angeli custodi, insomma, anche Alien ha fatto le uova, e lo scricchiolio della loro schiusa è destinato ad accompagnarci per molto tempo, eco sonora di un nuovo, irreversibile Big Bang.


Cecilia Mariani


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Quando iniziano gli anni Ottanta? Secondo Boris Battaglia nel 1979, con l'uscita nelle sale cinematografiche di un lungometraggio destinato a cambiare per sempre il nostro immaginario: "Alien" di Ridley Scott. A quarant'anni dal debutto di questo classico dello sci-fi horror, un volumetto appena pubblicato da Armillaria @armillaria_edizioni spiega perché sarebbe un ben grave e riduttivo errore considerarlo un film "di" paura invece che un grande capolavoro "sulla" paura: quella che abbiamo dell'altro, ma soprattutto di noi stessi. Se è vero che "nello spazio nessuno può sentirci urlare", un film come "Alien", alla stregua di certi angeli custodi, ha deposto le uova, e lo scricchiolio della loro schiusa è destinato ad accompagnarci a lungo, come l'eco di un nuovo e irreversibile Big Bang. Recensione della nostra Cecilia Mariani domani sul sito! 💚👽🚀 #libro #book #instalibro #instabook #leggere #reading #igreads #bookstagram #bookworm #booklover #bookaddict #bookaholic #libridaleggere #librichepassione #libricheamo #bookbreakfast #criticaletteraria #recensione #review #recensire #recensireèmegliochecurare #alien #borisbattaglia #armillaria #armillariaedizioni #cinema #film
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