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#CriticARTe - Una mappa per orientarsi tra le grandi mostre del passato

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Una panchina a Manhattan 
di Anna Ottani Cavina 
Adelphi, Collana Imago, 2019 

pp. 395
145 illustrazioni a colori 
€ 48 (cartaceo)



Nella critica letteraria la geografia va oggi più di moda della storia, si sa. Il dove è un aspetto sempre più preponderante nell’analisi di ogni produzione letteraria, passata e presente. La questione non è certo nuova: è del 1967, ad esempio, la celebre Geografia e storia della letteratura italiana di Carlo Dionisotti edita da Einaudi, stessa casa editrice che dal 2010 al 2012 ha pubblicato l’imponente Atlante della letteratura italiana in tre volumi, a cura di Sergio Luzzatto e Gabriele Pedullà, solo per nominare due tra i titoli più influenti. La parola chiave per fare critica letteraria è mappa, strumento fondamentale per decodificare la produzione culturale del mondo glocal. Si mappa di tutto: gli spazi degli scrittori e delle scrittrici, dei loro personaggi, della lingua che usano, delle riviste e così via.

Non diversamente succede in altri ambiti del sapere, tra cui la critica d’arte, dove anzi lo spostamento – e la mappatura di quello spostamento – è insito nel concetto stesso di mostra, che si realizza attraverso prestiti, cioè dislocamenti di opere. Una visione dell’arte per esposizioni, e quindi per dislocamenti, è quello che propone Anna Ottavi Cavina – docente di storia dell’arte alla John Hopkins University e all’Università di Bologna, curatrice e collaboratrice di diversi quotidiani – nel suo nuovo e splendido libro, il cui sottotitolo non a caso è Nuove geografie dell’arte
Il volume recupera e rielabora le recensioni, le cronache e altro materiale che Cavina ha prodotto in diverse occasioni. Oggetto della sua scrittura sono principalmente esposizioni internazionali, e talvolta anche eventi specifici, come ad esempio il restauro della scultura Adamo di Tullio Lombardo al Metropolitan Museum di New York nel 2002, o la pubblicazione del volume Su Correggio di Alberto Arbasino (Electa, 2008). Il periodo della mappatura – che segue un ordine non cronologico – va dal 1984 al 2018, anno della mostra su John Ruskin al Palazzo Ducale di Venezia curata dalla stessa Cavina, a cui è dedicato il saggio più lungo della raccolta. I nomi che popolano questa speciale geografia dell’arte sono molti e spesso grandi: Leonardo, Caravaggio, Goya, Manet. Ma ancora più spesso l’autrice ci racconta il lavoro di riscoperta e di sensibilizzazione implicito in alcune grandi esposizioni, guidandoci tra gli spazi concessi agli artisti meno conosciuti al grande pubblico, come lo statunitense John James Audubon, il francese Dominique-Vivant Denon, i danesi Christoffer Wilhelm Eckersberg e Vilhelm Hammershøi. Cavina riporta poi nel libro non solo il racconto di retrospettive e antologiche, ma anche quello di mostre che hanno indagato temi trasversali, come i ritratti nel Rinascimento (al Bode-Museum di Berlino nel 2011), i dipinti di scene conversazione (a Buckingham Palace nel 2009), i cani nell’arte dal Cinquecento al postmoderno (allo Houston Museum of Fine Arts nel 2006). I nomi e i temi – “in prestito” da museo a museo – attraversano la mappa di Cavina. Le tappe a New York, al Metropolitan Museum in particolare, e a Venezia per quanto riguarda l’Italia, sono prevedibilmente le più frequenti, ma le esposizioni raccontate nel libro non hanno confini territoriali (tranne quelli, impliciti, del mondo occidentale, entro cui si delimitano tutte le mostre raccontate dall’autrice).

Cavina illustra quindi come le esposizioni hanno cambiato le mappe dell’arte, e allo stesso tempo anche come l’arte ha cambiato la mappa dei musei. Come ad esempio quando nel 1992, per ospitare la retrospettiva su Matisse, il MOMA di New York mutò del tutto il suo aspetto, “lasciando al piano terreno un solo illustre relitto, le Demoiselles d’Avignon. Così, dopo avere contemplato Matisse, i visitatori incontrano l’antagonista Picasso, senza il quale la cosmologia di Matisse rimane mutila e indecifrabile”. Anche il pubblico delle mostre italiane sta diventando sempre più avvezzo ai cambiamenti strutturali dei musei. Basti ricordare il progetto Time is out of Joint (e il suo proseguimento, nel 2019, con Joint is out of Time), che dal 2016 al 2018 ha sconvolto l’allestimento della Galleria Nazionale di Roma decostruendone la linearità cronologica: un’operazione innovativa, criticatissima da molti storici dell’arte e premiata dal pubblico.
Cavina afferma di scrivere sotto l’impulso del momento storico, delle rivoluzioni del presente: 
se già “i primi musei pubblici del Settecento avevano sradicato le opere dai luoghi d’origine (chiese, conventi, quadrerie principesche), in nome di uno sviluppo progressivo che nel museo trovava una nuova giustificazione estetica, storica, didattica”, oggi più che mai “le opere salpano verso i luoghi del mondo e verso ogni tipo di mostre. Libere, senza radici: il solo vincolo si chiama oggi, in molti casi, cauzione”. 
L’oggi è fatto di digitale, di mostre che diventano esperienze sempre più inclusive e sensoriali.
Attraverso un viaggio in luoghi e tempi diversi, l'autrice allestisce così una mostra specialissima, un’esposizione della sua storia dell’arte, che è quindi anche una storia personale. E non a caso il libro si apre con il ricordo dei suoi maestri: Federico Zeri, Giuliano Briganti, Robert Rosenblum. Quest’ultimo omaggiato anche nel titolo, perché la panchina a Manhattan – precisamente all’angolo tra la New York University e Washington Square – è quella frequentata da Rosenblum, da dove il critico “invitava a rileggere l’arte passata e quella presente”. 

Il volume di Cavina – curatissimo, di un’eleganza perfettamente corrispondente a quella della collana in cui è pubblicato – è una lettura molto godibile e al tempo stesso, per la sua funzione in un certo senso manualistica, una guida da conservare e riprendere al bisogno. Perché il bisogno di sapersi orientare nell’intricata geografia dell’arte non appartiene solo agli addetti al settore, ma è cosa comune a chiunque ami le mostre. E a chi vorrebbe averne frequentate di più. Accompagnandoci in quelle dove non siamo potuti andare, Cavina ce le fa scoprire grazie al suo libro, che nulla toglie ai cataloghi e alla loro scientificità, ma aggiunge l’emozione del racconto.


Serena Alessi
@serealessi