di Antonio Moresco
SEM, 17 ottobre 2019
pp. 703
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È necessario diffidare dagli esperti di una
disciplina che nell’indagine di qualsiasi altro argomento introducono a forza
l’oggetto delle proprie conoscenze. Schiere di fini intenditori di psicologia
non osservano altrimenti che manifestazioni di casi clinici; legioni di dottori
in storia dell’arte costringono il discorso alle sue nude manifestazioni. Per
non dire dei semiotici…!
Peggiori di tutti, e nessun argomento
potrebbe confutare la tesi a seguire, sono i filosofi. Poiché la filosofia divora tutte le altre discipline confinandole a forza
nel territorio del pensiero non di rado una discussione benignamente letteraria
muta in disputa. A parziale discolpa di chi scrive, che pure vi è stato impelagato senza ancora affrancarsene del
tutto, è lo stesso Antonio Moresco, oggetto dell’indagine che segue, a
concedere un’invocazione al mondo del pensiero.
Ne Il Grido (SEM, 2018) il Narratore si
imbatte in una rappresentazione letteraria di Emanuele Severino, unico tra i
viventi ad appartenere ormai al catalogo dei classici del pensiero. Dalla toilette in cui una mente così acuta sta liberando le deiezioni del
corpo, il Narratore arringa la propria posizione intellettuale: «ho molto rispetto
per lei, rispetto e ribellione, se devo dirla tutta […] Eppure io lo so che lei
è un vero filosofo, un grande filosofo […] Questo porre in contrasto l’essere e
il divenire... perché la filosofia ha trovato queste due piccole parole e
questa piccola gabbia concettuale su cui si sono fatte schermaglie per secoli,
per millenni...». A tale esercizio di comprensione-esplicazione, seguono alcune
considerazioni: «e invece dove va l’acqua della cascata, dov’è quando si ferma
prima del salto: va verso il divenire o va verso l’essere? Va verso l’essere
che è dentro il divenire o verso il divenire che è dentro l’essere? Va verso la
vita che è dentro la morte o va verso la morte che è dentro la vita?».
Qualsiasi scrittore, nel moto da cui è
sospinto verso l’opera di un altro, non indaga che se stesso: non la
propria opera, se stesso allo specchio della scrittura. L’opera è quel
malinteso che trae dalle possibilità del pensiero la parte della pubblicazione.
Così, la citazione a Il Grido si potrebbe utilizzare quale premessa
all’intera opera di Moresco, non fosse che ormai sono stati più che esauriti i
paragrafi che è possibile dedicare alle premesse.
Promemoria: ricordarsi di scrivere una
recensione di sole premesse.
Nella terribile confusione di una vita che
incede verso la morte e di una morte che si approssima alla vita il critico
potrebbe leggere il lavoro che Moresco intesse da ormai decenni, da Lettere
a nessuno a Canti del Caos, per approdare a Gli
increati (Mondadori). Le città della vita e della morte,
meglio, le città della vita e le città della morte intese quali
geopolitiche ben distinte per quanto analoghe, pervengono all’ultimo territorio
di un’opera «finita […] mai cominciata», dove l’energia eteroclita di un
negativo senza rovescio e dunque privo di ontologia del positivo vince la
tradizione del divenire che da Aristotele tiranneggia sull’Occidente.
Ecco, le mani trascinano il pensiero.
Una breve divagazione immaginifica. Un
ragazzo se ne sta curvo e tranquillo a tradurre dal greco un brano aristotelico, finché non è coinvolto – investito da quella che a tutti
gli effetti si potrebbe definire un’esperienza estatica. Illuminato da una luce
effusa da chissà dove, forse dalle stesse carte, scorge un argine di teoria
nuova. Tutta la storia dell’essere, ovvero del divenire, non è che la
mistificazione del negativo nel racconto del positivo. È necessario, essenziale,
«ritornare a Parmenide», il proto-filosofo che per mezzo di un poema aveva
introdotto la distinzione fondamentale che è la fortuna dei manuali di scuola:
L’essere è e non può non essere; il non-essere non è e non potrà mai venire
all’essere. Il ragazzo risponde al nome di Emanuele Severino.
Seguono faticosi anni di testimonianze di
quella che, in quanto inedita osservazione ontologica, si risolve nell’indagine
di inesplorate genealogie del pensiero.
Se tanto faticosamente si tracciano i
destini di due autori, esplorando in montaggio alternato le due esistenze e
dunque ricongiungendole in un analogo interesse per quanto si sottrae
all’adeguazione verso il positivo, è per meglio presentare l’ultimo romanzo di
Antonio Moresco. Il giovane critico, che pretendeva divagare, si lascia vincere
dalla stanchezza (è tarda sera) ed è incastrato alle proprie responsabilità
recensorie.
Canto di D’Arco, il titolo del
romanzo che Antonio Moresco presenta per l’editore Sem.
Ma cos’è un’opera se non il pretesto di un
discorso più ampio che attraversi la possibilità stessa di compiere qualsiasi
discorso?
In uno dei saggi a sua firma, Destino
della necessità (Adelphi) Emanuele Severino descrive quel particolare «dibattersi
della cosa tra l’essere e il niente» (p. 24) la cui redazione in greco antico sarà
taciuta, ma che risponde alla traduzione di indecisione. La cosa, prosegue
Severino, dunque l’ente, è un’indecisione tra l’essere e il niente, tra la vita
e la morte.
«Mi chiamo D’Arco e sono uno sbirro morto», reagisce
l’incipit del romanzo di Moresco, e subito aggiunge: «[nella città dei morti] non ci sono gli anni».
Così sono invece descritte ne Gli increati (Mondadori, 2016) le medesime città: «la velocità dello spazio e del tempo ruotano all’incontrario attorno a
un unico perno. […] È tutto buio. Nessun punto di riferimento».
Sulla relazione tra i due romanzi serve sottrarre un brano alla piccola lettera di commiato in appendice al Canto: «Questo
romanzo entra da prima di dove culminano Gli increati, altrimenti non
avrebbe potuto essere scritto, viene all’incontrario, da dietro, viene dopo
perché viene prima».
L’oscillare tra il dopo e il prima, il
dibattersi tra l’aldilà e l’aldiqua sia della morte che della vita permette al romanzo
di superare il genere della disformazione esistenziale per approdare alla forma
della narrazione di genere.
Un libro è anzitutto le sue intelaiature, non
stupisca se si tratterrà l’attenzione del lettore su una delle alette. «Canto
di D’Arco», si legge appena prima di essere scaraventati nella narrazione, «è
un originalissimo thriller metafisico […] non il gioco di un abilità di uno
scrittore attorno a un genere letterario di grande successo». Si dovrà tradire
il tentativo di orientamento del pensiero sostenendo l’esatto contrario: Canto
di D’arco è il più compiuto gioco di abilità di uno scrittore etc. etc.
Il gioco è la più seria invenzione delle civiltà: produce un sistema di regole individualizzato
e dunque sedizioso verso l’altro sistema di regole, quello di chi non gioca. Chi tra i bambini è guardia e chi ladro, chi conta e chi si nasconde, chi compie e chi
subisce lo scacco matto, per quanto immersi in un mondo di sogno in cui niente
si potrà indovinare rispetto alle regole da cui sono avvicinati, non stanno
realizzando altrimenti che il magnifico marameo e il piccolo caos verso la
rigidità del discorso. Se il romanzo di Moresco propone anzitutto l’indecisione
e dunque la sovversione del sillogismo d’Occidente (“Tutti gli uomini sono
mortali. Socrate è un uomo dunque Socrate è mortale”) non si può che definirlo
un gioco.
Chi nei giochi muore non muore mai sul serio
nel mondo della vita.
Ancora fuori dal genere e dentro la teoria,
ma già approssimandoci al luogo di confine in cui gli insiemi si mescolano, l’opera
è intessuta di una diade-triade. La descriverà un brano di Sigmund
Freud: «Il significato dell’evoluzione civile […] indica la lotta tra Eros e Morte,
tra pulsione di vita e pulsione di distruzione, come si attua nella specie
umana. Questa lotta è il contenuto essenziale della vita» (Il disagio della
civiltà, Bollati Boringhieri, tr. It. C. Musatti). Il gioco – ancora una
volta – freudiano considera l’approssimarsi della Morte al “contenuto essenziale
della vita”. Allo stesso modo Moresco situa il romanzo nei territori in cui
le città della morte e della vita si contendono a vicenda l’atto e la potenza,
sublimandosi infine in Eros, Amore. Si attraversano, inerpicandosi e infine
gettandosi di nuovo in pianura, le vette di una struttura piramidale. I
paragrafi dedicati all’amore compongono la giuntura di un attraversamento in
forma discesa-ascesa verso le città di confine.
Non senza ragione l’opera utilizza (assoggetta) la struttura
narrativa del thriller: la finalità cui l’eroe deve giungere, la sua
personale teleologia, le peripezie da affrontare – descritte nel modo di un gore
grottesco a gradazioni di bizzarro fiction – manifestano all’origine la
possibilità dell’avvenire, ma allo stadio terminale la mancata arrendevolezza
verso quanto è già avvenuto.
Dal romanzo ontologico-esistenziale Moresco
approda al romanzo etico.
Si prosegue nel fantasma della progressione:
il primo capitolo della prima parte reca in insegna “1”; l’ultimo capitolo dell’ultima,
“15”. Tale dispiegamento non è che il tentativo della voce narrante di illuminare
quanto altrimenti risulterebbe oscuro e incomprensibile. Peggio, per uno
scrittore: impubblicabile. In 71 frammenti di una cronologia del
caso il regista Michael Haneke propone uno sguardo non-progressivo sulla
cronaca, sull’intero arco dell’avvenimento. Tutto è descritto per mezzo di
episodi non consequenziali per cui nessun modello potrebbe servire nella ricostruzione
degli eventi (a differenza di quanto accade, ad esempio, in La vita:
istruzioni per l’uso, romanzo-puzzle di Georges Perec).
È tutto quanto il giovane critico imputa a
un romanzo che esibisce i sintomi della magnificenza, ovvero la ricerca di
una progressione ragionevole nel genere tradita dalla difesa speculativa del
Narratore: “scrivo così per rendermi chiaro”. Come può la ragione che tutto orienta descrivere
l’immanenza di un territorio in cui la vita coincide con la morte?
Antonio Iannone
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