Justin K. Thannhauser ha una storia che, come uno specchio, riflette quella del Novecento.
Ebreo tedesco nato nel 1892, fu un collezionista e mercante d'arte che nel 1940 fuggì dall'Europa occupata dai nazisti per approdare a New York.
Gli anni prima di questo viaggio lo avevano visto a lavoro a Lucerna, dove aprì una galleria insieme al cugino Siegfried Rosengart, Monaco, Berlino e Parigi. Era l'inizio del '900 e lui valorizzava l'opera di Degas, Matisse, Monet, Gaugin.
Aveva senso del bello, spirito imprenditoriale, visione. Già dagli inizi della sua carriera voleva focalizzarsi su "tutto ciò che di potente, nuovo, diverso e moderno" l'arte stava regalando al mondo.
Sapeva dove andare con la sua ricerca artistica, faro costante in una vita costellata anche da grandi dolori, come la perdita dei figli.
È a quest'uomo e al suo lavoro che rende omaggio la mostra che apre la stagione espositiva di Palazzo Reale a Milano, Guggenheim. La collezione Thannhauser, da Van Gogh a Picasso, con la proposta dei capolavori d'arte della collezione Thannhauser, dal 1978 ufficialmente confluiti nel patrimonio del Guggenheim di New York per volere del collezionista che lo aveva annunciato già nel 1963. Un omaggio alla sua storia, alla sua famiglia e a New York, città dove lui non aprì mai una galleria ma continuò a commerciare privatamente, entrando in contatto con personaggi come Duchamp, Bernstein, Toscanini, Bourgeois.
Gli anni newyorkesi segnarono per Thannhauser e per la città una delle più alte vette di sviluppo artistico: un uomo in fuga dalla guerra portava l'arte di DNA europeo in un'America che lottava per la libertà. Nella sua attività e nelle esposizioni, che avvenivano perlopiù nella magnifica casa in cui viveva prima insieme alla prima moglie Käthe e poi alla seconda Hilde, c'era tutto il dramma di un'intera generazione che ha cercato nell'arte la fuga dall'orrore della storia.
La mostra, promossa e prodotta dal Comune di Milano Cultura, Palazzo Reale e MondoMostre Skira, è curata da Megan Fontanella, conservatrice di arte moderna al Guggenheim.
Per il museo la collezione Thannhauser ha significato molto: prima di tutto uno straordinario ampliamento della collezione di arte moderna. Riferendosi al suo lascito lo stesso collezionista affermò:
Credo fermamente che questi settantacinque dipinti esprimano un'unitarietà che non è possibile trovare in altri musei. Coprono un periodo che va da 75 a 100 anni e vedo che derivano l'uno dall'altro.Emerge qui uno dei caratteri fondamentali dell'esposizione: l'unitarietà.
Le opere, tra cui spiccano Paul Cézanne, Pierre‐Auguste Renoir, Edgar Degas, Paul Gauguin, Edouard Manet, Claude Monet, Vincent van Gogh e Pablo Picasso, sono legate da rapporti di discendenza, derivazione, analogia.
Il passaggio epocale dall'arte dell'Ottocento a quella del Novecento, con tutto lo struggimento di un mondo che cambia e si frammenta tra le guerre, l'esplorazione dell'io, la perdita delle sue coordinate, è espresso dai tratti, dalle linee di colore, dalle storie dei quadri e degli artisti. Uno tra tutti Picasso, legato a Justin Thannhauser da una profonda amicizia.
Impressionismo, post impressionismo, avanguardie, sperimentalismo si susseguono: nella storia della collezione c'è il Novecento che prende forma e colore.
Ho provato, quasi per gioco, a isolare singoli aspetti e temi (una selezione dei tanti) simbolicamente rappresentati da alcune delle opere chiave della collezione.
L'INTROSPEZIONE
Édouard Manet, Davanti allo specchio (Devant la glace), 1876
Un'affascinante cortigiana, di cui vediamo solo le spalle e il busto stretto in un corsetto, si riflette in uno specchio.
L'opera è ottocentesca, ma può essere letta anche come prematura espressione della tendenza all'introspezione a all'analisi dell'io che inaugureranno il Novecento.
La donna non è la mera rappresentazione di un contesto sociale suggerito dalle rapide pennellate di Manet con i vestiti e gli arredi. Il personaggio si guarda in uno specchio che non sembra rifletterla, ci racconta una ricerca di identità.
Il pittore non poteva saperlo, ma a noi che la guardiamo oggi sembra avanguardisticamente aprire la strada a Pirandello.
LA RIVOLUZIONE
Paul Cézanne, Uomo a braccia conserte (Homme aux bras croisés), 1899
Cézanne è il poeta post impressionista più enigmatico e singolare. La sua aderenza al movimento non fu mai totale perché mentre faceva suoi i caratteri della corrente che ha cambiato per sempre il mondo dell'arte, elaborava nuove regole e intraprendeva un cammino autonomo che finì per differenziarlo da tutti gli altri e per fare di lui il vero artefice della rivoluzione.
Nell'Uomo a braccia conserte si vede l'Ottocento che si trasforma nel Novecento con l'enigmatica figura che non guarda direttamente lo spettatore eppure sembra chiamarlo e intrigarlo. L'anonimo sfondo di una stanza come tante diventa la quinta scenica di un cambiamento che ha al centro la persona.
IL DISSIDIO DELLO SGUARDO
Vincent Van Gogh, Montagne a Saint Rémy (Montagnes à Saint-Rémy), 1899Le inquiete pennellate di Van Gogh rappresentano la tensione interiore della sua visione. Non di una scena sociale o di un volto deformato dal dolore stiamo parlando, bensì del più armonico dei paesaggi: una veduta montana.
Ma la montagna di Saint Rémy è tortuosa come un torrente pieno di rapide, si nutre di colori sovrapposti e di un cielo irrequieto nonostante la sua chiarezza.
Van Gogh non è la malattia, è l'allucinazione della forma e del colore. È dissidio novecentesco quando il Novecento non c'era ancora.
L'ARTIFICIO
Pablo Picasso, Moulin de la Galette, 1900
Richiama Renoir Picasso con il suo Moulin de la Galette, dando vita alla scena notturna di un famoso locale parigino dove uomini e donne ballano, bevono e conversano attorno ai tavoli.
Ma non solo lo riprende: nell'omaggio gli fa il verso e ci offre allo sguardo personaggi che si confondono in una danza triste, donne dallo sguardo ammiccante, accompagnatrici dei borghesi in libera uscita. La rappresentazione di una società dell'artificio che eredita suoni e colori da quella ottocentesca ma è molto più perturbante e allergica alle regole.
L'ENIGMA DEL SOGNO
Henry Rousseau, I giocatori di football (Les Joueurs de football), 1908
A Rousseau è affidato il compito di rappresentare simbolicamente la collezione perché i suoi Giocatori di football sono l'immagine guida della mostra.
La scena è ordinata; tra filari di alberi dalle tinte autunnali giocano quattro uomini. Le divise a righe e la loro conformazione anatomica danno bidimensionalità alla scena, le movenze sono irreali, quasi buffe, gli arti sembrano muoversi come quelli delle marionette di un teatrino. Più che in un campo, sembrano giocare in un giardino. Uno di loro, quello al centro che ci guarda con aria sfidante, salta nell'atto di lanciare o prendere la palla. Sembrano danzare, ammiccanti, in loro non c'è traccia di sforzo come di realismo.
Nella rappresentazione di Rousseau si celano diversi enigmi: chi sono i giocatori? Dove si trovano? Come mai sono solo in quattro? In che periodo è ambientata la scena? Sembra tutto fuori dal tempo e dallo spazio, un'immagine sospesa, il sogno di un mondo che in quegli anni imparava con Freud a interpretarli.
Finisco di visitare l'esposizione e mi torna in mente la frase che accoglie i visitatori:
Prima sogno i miei dipinti, poi dipingo i miei sogni.L'ha detta Van Gogh ed è perfetta per rappresentare l'intero viaggio artistico nella collezione Thannhauser. Forse non è altro che un lungo inquieto sogno che abbraccia un secolo di metamorfosi.
Claudia Consoli
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