di Elizabeth Jane Howard
Fazi Editore, 2019
Traduzione di Emanuela Francescon
pp. 330
€ 18,50 (cartaceo)
€ 12,99 (ebook)
Alice, figlia bruttina e trattata alla stregua di una serva, sta per convolare a tristi e mediocre nozze sotto lo sguardo compiaciuto del padre, il colonnello Browne-Lacey. Lei sta solo cercando di iniziare una nuova vita lontano da lì.
May, terza moglie del Colonello, guarda con apprensione l'enorme e gelido maniero dove vivono e pensa che non sia necessario tutto quello spazio per solo loro due.
Oliver, figlio di May, non ha intenzione di mettere a frutto né la sua laurea né la sua viva intelligenza, finalizzato com'è allo sposare una donna ricca che lo possa mantenere.
Elizabeth, sua sorella, che si ritiene sciocca e di poco valore, si sposta a Londra e, dal semplice lavoro come cuoca nelle case, incappa in un grande e avversato amore.
Elizabeth Jane Howard in questo romanzo Le mezze verità pubblicato per la prima volta nel 1969, con il garbo e l'acuta osservazione della psicologia umana che le è propria mette su carta una storia che risulta essere una delle commedie di costume più cupe che si possano immaginare.
«Ah, non chiederlo a me. Non ne ho davvero idea. Tu del resto hai capito cos'abbia spinto May a sposare Herbert? Siamo così ansiosi di capire il comportamento degli altri che ci raccontiamo un sacco di storie, ci inventiamo un sacco di sfumature, ma non capiamo un bel niente». (p. 176)
All'uscita del romanzo, il Sunday Times lo definì una "narrativa da rivista femminile". Il Guardian, più favorevole, ne apprezzò la deliziosa comicità. Eppure, ben poco di comico c'è ne Le mezze verità, romanzo che la Howard scrisse negli anni a cavallo dell'esperienza americana del marito, Amis Kingsley, e il loro ritorno in Gran Bretagna con l'acquisto dell'imponente residenza di Gladsmuir. O, quanto meno, non si può sorridere senza sentire il profondo disagio e i cupi pronostici che non abbandonano mai i personaggi.
In inglese c'è la sottile distinzione tra il termine "house" e "home". Il primo indica l'edificio, la casa, in quanto struttura; il secondo trasmette il senso di dimora. Tutti i personaggi vivono un senso di solitudine e isolamento dato dalla mancanza di una vera e propria "home" nelle loro vite. L'autrice, prima nella casa di Nashville e poi nella magione dell'Hertfordhire, non si trovò bene. In America non aveva avuto la possibilità di insegnare, cosa che invece il marito fece alla Vanderbilt University, e si era ritrovata intrappolata in una casa che non amava. Di ritorno in Gran Bretagna, si trovò a dover gestire un'enorme magione con un personale sempre molto risicato che mise alla prova le sue energie e il suo tempo. Non sorprende quindi che la tenuta di Monk's Close, dove May e il Colonello vivono, non sia il punto fermo e piacevole della vita familiare come Home Place per i Cazalet, ma piuttosto un enorme buco gelido con così tante stanze e angoli da ricordare le atmosfere della Manderley di La prima moglie di Daphne du Maurier. Alice, dopo il mediocre matrimonio, si trova a vivere lontano, in una casetta di nuova costruzione brutta e arredata in maniera dozzinale. Elizabeth e Oliver a Londra vivono in condizioni di costante precarietà, portati avanti solo dai guadagni e dall'impegno di Elizabeth. Sono personaggi estremamente mobili i protagonisti di questo romanzo: si muovono alla ricerca di un posto dove riuscire a stare. Elizabeth passando da Londra, alla Costa Azzurra, alla vecchia casa della madre, al nuova dimora di Cole, fino alla residenza di Alice, non riesce a trovare pace o un luogo che le consenta di fermarsi. Il Colonello vorrebbe solo assicurarsi per sempre il tetto di Monk's Close sopra la testa; May vorrebbe disfarsene. In questa disgregazione e mancanza di un punto di appoggio trae nutrimento la profonda infelicità dei personaggi.
Perché possiamo sorridere delle prodezze del gatto Claude, "uno dei più grandi gatti della narrativa" così come venne definito in una delle lettere di apprezzamento all'uscita del romanzo. Il suo accaparrarsi il salmone del ricevimento di nozze di Alice, il suo sgattaiolare e il suo disprezzo per gli esseri umani offre uno dei quadri letterari più realistici di sempre sulla condizione felina (con buona pace della garbata gatta di Helen Hunt Jackson), ma anche la pervasiva presenza degli animali domestici ha in sé una vena di inquietudine che vira sulla tragedia. I cani di Monk's Close senza la presenza di Alice vengono lasciati a loro stessi ad abbaiare nelle notti di nebbia e neve. Il cucciolo che la suocera di Alice le regala come atto affettuoso è portatore di disturbo e di morte. Lo stesso Claude cadrà vittima della sua golosità consentendo di scoprire la pericolosa pazzia del Colonello.
Gli uomini, da questo romanzo, non ne escono bene. Sempre il Sunday Times li definì caricaturali. E, in effetti, il marito di Alice, Leslie, è un uomo intrappolato in una mentalità retrograda per la quale la moglie non deve apprezzare i rapporti sessuali ed è destinata a curare la casa e a sfornare figli. Oliver, pur con la sua intelligenza, è un accidioso che approfitta senza troppe remore della sorella. Il Colonnello è uno psicopatico che nasconde dietro la sua facciata da uomo di altri tempi, amante della buona e semplice cucina inglese, un'amoralità e una freddezza d'intenti che agghiaccia. Il dottor Sedum, affabulatore e ciarlatano a capo di una non ben specificata "Lega", mira alla sottomissione dei suoi adepti per percepirne vantaggi e beni materiali. Ben lontani dall'essere caricature, pur non facendosi portabandiera di valori positivi, sono dipinti con l'accuratezza psicologica che la Howard da sempre infonde nei suoi personaggi.
Se di commedia di costumi vogliamo parlare, in questo romanzo possiamo evidenziare la modernità dei temi trattati: l'alcolismo, la promiscuità dei rapporti sessuali e sentimentali, il rifiuto delle strutture familiari "convenzionali", la presenza di sette che mirano a circuire i partecipanti. Ma ogni comicità viene bruscamente interrotta da schianti: bicchieri pieni di veleno che si infrangono, auto che precipitano, lastre di ghiaccio sottili che tagliano. E, nella sua grandezza, questo romanzo merita molte definizioni, ma non di essere rimpicciolito o ridotto alla mera narrativa da rivista femminile.
Giulia Pretta
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