L’incantevole sirena.
Napoli misteriosa, magica, feroce
di Francesco Palmieri
Napoli misteriosa, magica, feroce
di Francesco Palmieri
Giunti Editore, 2019
pp. 366
€ 18,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Napoli: pizza, spaghetti e frittura. Napoli: babà, sfogliatelle e caffè. Napoli: mandolino, melodia e posteggia. Napoli: Pulcinella, Scarpetta, Eduardo. Napoli: sole, mare, vulcano. Ci sono molti modi per parlare del capoluogo della regione Campania, luogo soggetto più di altri all’invadenza di stereotipi tenaci, ostinati, duri a morire (anche quando questi corrispondono a delizie gastronomiche, eccellenze culturali, meraviglie paesaggistiche). E sono discorsi, quelli riguardanti la città, non di rado animati dal sottinteso della dichiarazione d’amore, meglio ancora quando riescono a omaggiare con un sentimento parimenti intenso gli aspetti più pregiati e quelli più difettosi. Certo, molto dipende da chi certi discorsi li fa, vale a dire dal punto di vista adottato e dalla sua maggiore o minore familiarità con l’ambiente. Quello del napoletano Francesco Palmieri, per esempio, non ha nulla né della partigianeria aprioristica né della critica accorata che spesso caratterizzano le disquisizioni in punta di appartenenza tipiche dei nativi. Nel suo L’incantevole sirena, appena pubblicato da Giunti, il giornalista – che è anche maestro di Kung Fu e mandolinista – compie un’osservazione che è tutta un’alternanza di alto e basso, di plongée e contre-plongée: affievolendo le luci della più tipica cartolina partenopea, l’autore racconta un mondo che ha la sua natura originaria sott’acqua e sotto terra, in cui convivono aldiquà e aldilà, beatitudine e jettatura, segreti e misteri. Un luogo in cui, come si legge sul retro di copertina, si alternano «l’orrore e la bellezza, santità e sangue, incenso e polvere da sparo. Fra lo sputo e un bacio».
Lascino dunque ogni speranza nelle più placide e accoglienti atmosfere mediterranee coloro che si addentrano tra le molte pagine (quasi quattrocento) in cui l’autore ha scelto di parlare della sua città d’origine (attualmente vive e lavora a Roma). Il racconto, difatti, è un lungo attraversamento della dimensione intermedia in cui da sempre si muovono le sue genti indigene e forestiere, e di quell’atmosfera sospesa tra vita e morte, realtà e sogno, lecito e illecito che ne impressionò alcune e ne incatenò altre. Ma si badi: Francesco Palmieri non sembra interessato a porsi come un novello Dante intento ad aggirarsi in circostanze più o meno infernali, purgatoriali e paradisiache (e sì che, tra i molti altri, avrà modo di discorrere anche del poeta-mago Virgilio, che proprio a Napoli ha trovato la sua sepoltura). No, l’intenzione sembra piuttosto quella di spiegare al lettore come una delle più efficaci vie d’accesso alla comprensione dell’anima della città sia quella che sonda le cavità meno accoglienti della conchiglia, quella che ne ascolta il bisbiglio che sa di mare e di vento come anche di oracolo e di preghiera. Meglio gettare tra i flutti le bussole e le cartine – «lo stupore e la perdita di orientamento sono il presupposto, o l’effetto, di tutti i misteri» (p. 8) – e meglio dare le spalle alle onde per predisporsi a un epifanico girovagare terrestre – «chiunque vuole conoscere una città ci deve camminare. Solo così spuntano le sorprese» (p. 27).
L’invito dell’autore è dunque quello di osservare il tutto con uno sguardo meno razionale del solito: bisogna aprire altri occhi, quelli, per così dire, cardiaci, e abbandonarsi a una percezione di semicoscienza simile alla rielaborazione fantasiosa del proprio vissuto che si sperimenta durante i sogni. In questo modo, non solo sarà possibile leggere le storie raccontate da Palmieri senza farsi tentare dall’istinto della logica contraddizione, ma ci si scoprirà in perfetto allineamento con la dimensione privilegiata dell’intera città: perché «a Napoli la dimensione onirica regala una vita parallela di possibilità negate allo stato di veglia. Il confine tra notte e giorno si assottiglia e ciò che opera su un piano può agire sull’altro, o quantomeno condizionarlo» (p. 34). È la lingua stessa che lo certifica: «in un idioma che dispone di circostanziate definizioni lessicali, c’è solo un termine per indicare il sonno e il sogno: suonno. Come se non valesse la pena precisare» (p. 35). Ogni fatto, aneddoto, episodio, usanza, tradizione, credenza, leggenda, consuetudine può così accomodarsi nel suo perfetto albergo: spiritismo, occultismo, maledettismo e jettatura – una «“faceta filosofia”» quest’ultima «che cela sotto la bonomia del sorriso il drammatico rapporto dei napoletani con la Storia» (p. 318) – stanno di casa alla pari della devozione dei santi e della cura delle anime. E tutto ciò, si badi, senza tema del Demonio, perché «una civiltà che vive da millenni a stretto contatto con l’infero ha finito per svalutare o ignorare l’Inferno» (p. 106) e anche l’incontro tra i napoletani e il diavolo, dopotutto, è sempre un stato «un misto di sacro e di farsesco» (p. 109). In un libro densissimo di trame e di intrecci, Palmieri scrive pagine parimenti affascinanti e affettuose soffermandosi su fenomeni e figure entrati di diritto nell’immaginario comune. Come il gioco del Lotto, che solo a Napoli è diventato «una pseudoscienza in cui si sono fuse – o confuse – aritmetica, oniromanzia, cabala, magia naturale, culto cristiano» (p. 40): «sacro e profano, sogno e realtà, dimensione pubblica e privata, devozione e delinquenza hanno trovato nel gioco una straordinaria condensazione» (p. 41). E che dire di Totò, ovvero il principe Antonio de Curtis, «il napoletano più amato persino da chi non ama Napoli»:
«cambiano i tempi, ma Totò resiste quanto e più di molti santi. La sua icona riprodotta nelle statuette di creta, su gadget, magliette e calamite, addirittura si autoriproduce, per suggestione collettiva o per qualche buffo prodigio» (pp. 220-221).
Come ogni libro che sceglie di raccontare una città da una prospettiva non troppo rassicurante e non stereotipata, anche L’incantevole sirena è destinato a dividere il suo pubblico; a partire da quello locale, abitante di un capoluogo che da tempo immemore ha fatto l’abitudine alla (auto)narrazione di sé. Nel lavoro di Francesco Palmieri non c’è nessuna intenzione di promozione turistica, nessun sottinteso commerciale, nessuna strizzata d’occhio alla bancarella dei souvenir da esibire come trofeo per la conquista della tappa di viaggio. Dunque, se chi crede di rintracciarvi un qualche comodo itinerario resterà deluso, è soprattutto perché l’autore si è spinto ben oltre le topografie più convenzionali: indulgendo nel cartolinesco e nel bozzettistico non sarebbe stato possibile restituire nessun “mistero”, nessuna “magia” e nessuna “ferocia”, pena il tradimento dello stesso sottotitolo del volume. Per questo, anche quando l’accento viene posto su personaggi, ambienti, usi e costumi conosciuti ai più, l’autore misura i toni in modo da non scadere mai nella trappola della storiella orecchiata infinite volte, e il racconto che ne risulta non è meno attraente o invogliante rispetto a quelli che sfruttano d’abitudine le atmosfere più solari e più sature di colori, odori e sapori. L’incantamento, ad ogni modo, c’è tutto, e a fine lettura ci si ritrova così, “tra color che son sospesi”, creduli e increduli, ancora più sedotti dalla città violenta e lunare fondata dalla Sirena vergine Partenope, e in cui ogni cosa, da sempre, è animata.
Cecilia Mariani
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