Il corvo
di Cord Riechelmann
traduzione dal tedesco di Angela Ricci
introduzione di Telmo Pievani
progetto grafico di Judith Schalansky
Marsilio, 2019
pp. 168
€ 15,00
Una premessa un poco personale, ma per certi aspetti necessaria: la persona che scrive questa recensione è nata e attualmente vive in una città – Nuoro – che uno dei suoi più noti e celebrati intellettuali – Salvatore Satta (1902-1975) – ebbe modo di definire, senza troppe reticenze, “un nido di corvi”. Il romanzo in cui trovava alloggio la metafora ornitologica destinata a divenire sinonimo del capoluogo barbaricino era Il giorno del giudizio (1977), e l’allusione, come si intuisce, non aveva nulla di lusinghiero: tra quelle pagine covavano le uova di un immaginario nero, torvo e malaugurante che con tutta evidenza scontentò gli abitanti, pubblicamente additati quali indossatori di uno sgradevole habitus simbolico che li voleva dotati di becchi, artigli e piume d’inferno. A nessuno venne in mente che quegli uccelli potessero avere anche una connotazione positiva e addirittura virtuosa, ma del resto non poteva essere che così: lo scrittore-giurisperito non l’aveva di certo messa in conto, e il suo preciso riferimento animale si abbeverava alla fonte delle credenze più comuni – di antica tradizione popolare, artistica, letteraria – circa il più sinistro degli uccellacci. La stessa ombrosa tradizione che il tedesco Cord Riechelmann ha voluto recentemente contraddire punto per punto dando alla luce Il corvo, appena pubblicato nella sua versione italiana dalla casa editrice Marsilio all’interno della collana Storie Naturali.
di Cord Riechelmann
traduzione dal tedesco di Angela Ricci
introduzione di Telmo Pievani
progetto grafico di Judith Schalansky
Marsilio, 2019
pp. 168
€ 15,00
Una premessa un poco personale, ma per certi aspetti necessaria: la persona che scrive questa recensione è nata e attualmente vive in una città – Nuoro – che uno dei suoi più noti e celebrati intellettuali – Salvatore Satta (1902-1975) – ebbe modo di definire, senza troppe reticenze, “un nido di corvi”. Il romanzo in cui trovava alloggio la metafora ornitologica destinata a divenire sinonimo del capoluogo barbaricino era Il giorno del giudizio (1977), e l’allusione, come si intuisce, non aveva nulla di lusinghiero: tra quelle pagine covavano le uova di un immaginario nero, torvo e malaugurante che con tutta evidenza scontentò gli abitanti, pubblicamente additati quali indossatori di uno sgradevole habitus simbolico che li voleva dotati di becchi, artigli e piume d’inferno. A nessuno venne in mente che quegli uccelli potessero avere anche una connotazione positiva e addirittura virtuosa, ma del resto non poteva essere che così: lo scrittore-giurisperito non l’aveva di certo messa in conto, e il suo preciso riferimento animale si abbeverava alla fonte delle credenze più comuni – di antica tradizione popolare, artistica, letteraria – circa il più sinistro degli uccellacci. La stessa ombrosa tradizione che il tedesco Cord Riechelmann ha voluto recentemente contraddire punto per punto dando alla luce Il corvo, appena pubblicato nella sua versione italiana dalla casa editrice Marsilio all’interno della collana Storie Naturali.
Sembrerebbe una missione impossibile quella intrapresa dal professore di etologia sociale dei primati e già studente di biologia e filosofia alla Freie Universität di Berlino: dopotutto ci sarà pure un valido motivo se i corvi hanno sempre goduto di una pessima fama materiale e immateriale. Invece, evidenze scientifiche alla mano – esito di un lungo e diffuso processo di osservazione che ha subito una svolta negli ultimi decenni del Novecento – questi volatili si rivelano creature ingiustamente sottovalutate, anzi diffamate. E anche la storia personale dell’autore, in questo senso, si configura come un cambiamento di paradigma esistenziale: un affare di non poco conto per un uomo cresciuto nella provincia della Bassa Sassonia, per giunta all’interno di una famiglia di cacciatori che aveva fatto della violenza contro i corvi una cifra della propria quotidianità, dal momento che tutti gli appartenenti alla famiglia delle Corvidae, oltre a non godere della tregua dei divieti garantita alla selvaggina, erano considerati indistintamente «predatori inadatti a divenire a loro volta prede, e quindi, secondo le leggi della caccia, assimilabili a parassiti» (pp. 20-21). Ci sono voluti anni di studio universitario nella Berlino Ovest per mutare definitivamente la diffidenza in fiducia, la repulsione in attrazione, e per scrivere parole simili a dichiarazioni d’amore perpetue, effetto di un sentimento che non si esaurisce perché si alimenta dell’ignoto sempre presente e possibile nel suo destinatario:
«ai miei occhi questi uccelli conservano qualcosa di misterioso, che è parte integrante della loro bellezza. Sono di casa praticamente in ogni parte del mondo, ma in nessuna sono considerati esotici, e rimanere misteriosi senza essere esotici è davvero molto raro» (p. 24).
Come nota Telmo Pievani nella bella prefazione, intitolata L’animale ambivalente, quello stilato dall’autore tedesco è
«un racconto dotto e argomentato del rinascimento dei corvi, della loro rivalsa sul palcoscenico, se non altro, della scienza, cioè di quel momento in cui la conoscenza aneddotica, con le sue esagerazioni soggettive, deve fare i conti con i fatti e gli esperimenti» (p. 9).
Il filosofo e storico della biologia – nonché esperto di teoria dell’evoluzione e professore ordinario presso l’università degli studi di Padova, dove insegna nella prima cattedra italiana di filosofia delle scienze biologiche – dimostra però di avere inteso a perfezione il quid dell’intera faccenda (e dunque le ragioni del libro) nel momento in cui, come Riechelmann, sottolinea l’antichità e l’importanza del legame tra i corvi e gli esseri umani; un rapporto da non intendersi né nel senso di un addomesticamento – i corvi non sono mai stati addomesticati in nessuna parte del mondo e da nessuno, con l’eccezione di Konrad Lorenz, uno degli etologi più influenti del XX secolo, che riuscì nell’impresa con un’intera colonia di taccole – né nel senso di una banale e “favolistica” proiezione psicologica e attitudinale sugli animali – tendenza, peraltro, sempre perniciosa, dato che «c’è sempre il rischio di immedesimarsi eccessivamente nelle relazioni con loro e di applicare categorie antropomorfiche» (p. 11). Il legame sarebbe invece la dimostrazione di un’affinità dovuta al contatto costante e continuo nel tempo e alle vicissitudini evolutive e migratorie:
«i corvidi sono tra gli uccelli con il più alto quoziente di encefalizzazione, cioè il rapporto tra dimensioni del cervello e taglia corporea, che solitamente è in relazione con la complessità delle strutture sociali. Per questa e per molte altre ragioni, vengono spesso paragonati a noi umani: sono generalisti, opportunisti, onnivori (con preferenza per carne, uova, carogne e cibi grassi e proteici), sono sparsi ovunque, resistenti, adattabili, globali, diversificati (130 specie in 25 generi), hanno pochi ancorché agguerriti nemici (astori, aquile, gufi, altri rapaci, volpi). Chi si somiglia di più, nei rapporti tra specie, tende ad amarsi o a odiarsi di più, perché ci si capisce meglio ma si finisce anche per essere rivali. Forse anche questo è un motivo per cui sono vittime di pregiudizi: talvolta creatori, talatra distruttori, improvvisatori, profeti con poteri divinatori, giullari, truffatori. E poi non sono buoni da mangiare: proprio come noi. I corvi sono un nostro alter ego evolutivo, concorrenti naturali. Sono ovunque attorno a noi, eppure non li degniamo di uno sguardo. La nostra relazione con loro è tra le più dimenticate e rimosse fra tutti gli animali. Un emblema della nostra perdita di attaccamento al mondo naturale» (pp. 9-10).
Per centocinquanta pagine, dunque, Riechelmann si dedica alla confutazione dei più triti luoghi comuni sui bistrattati pennuti, alternando ricordi personali, miti e resoconti scientifici. Soprattutto, riesce a spiegare con efficacia la differenza tra la frequentazione dei corvi in mezzo alla natura, in città o allo zoo in qualità di “osservatore partecipante” – «a questi uccelli infatti non sfugge niente e talvolta può capitare che all’incontro successivo siano loro a rivolgere la propria attenzione al visitatore» (p. 43) – e l’esperimento passivo della loro pessima reputazione attraverso i filtri certamente fascinosi ma spesso fuorvianti della poesia, delle arti visive, del cinema (basti pensare, a tale proposito, che «Gli uccelli di Hitchcock è stato per i corvi ciò che Lo squalo di Steven Spielberg ha rappresentato per gli squali: ha segnato l’inizio della connotazione popolare negativa di questi animali» (p. 99). Il giusto spazio, come si intuisce, viene dedicato al rapporto di questi uccelli con la morte – «che appare scontato, dal momento che si nutrono di carcasse. Inoltre, essendo dotati di uno straordinario spirito di osservazione, in qualche modo riescono a “presagire” una morte imminente» (p. 18) – e alle conseguenze pratiche e simboliche del loro colore prevalentemente nero, che «può essere visto talvolta come uno dei segreti del loro successo» (p. 70), ovvero della loro longevità e quantità: l’essere considerati “brutti” ne ha scongiurato la caccia e favorito l’adattamento, ed è per questa ragione che le loro sorti sono state ben più felici in confronto a quelle di alcuni loro cugini più prossimi come gli uccelli del paradiso, cacciati per il meraviglioso piumaggio e incapaci di adattarsi in contesti differenti dalla nativa Nuova Guinea.
Chiude il volume una bella carrellata di Ritratti: venti piccole schede dedicate alle specie più note, la cui descrizione pone l’accento su atteggiamenti che il lettore tenderà a ricordare anche per la già citata tendenza (spesso fuorviante, come si è detto) alla antropomorfizzazione. Così, per esempio, circa le abitudini nella vita associata e di coppia: mentre i maschi della ghiandaia (garrulus glandarius) sono addirittura attenti alla «vita interiore della loro partner, soggetta ai cambiamenti di umore» (p. 130), le piccole ghiandaie azzurre (cyanocitta cristata) – ma ne esistono anche di verdi (cyanocorax yncas) e brune (psilorhinus morio) – «sono le più individualiste tra le ghiandaie del Nuovo Mondo» (p. 122). La cura del rapporto, invece, viene prima di ogni cosa anche per gli esemplari di gazza (pica pica) per via della necessità di proteggere la propria riserva dalla costante minaccia rappresentata dai propri simili, una ricerca di armonia che si manifesta in curiose abitudini durante il sonno: «mentre assemblano il nido le coppie dormono poco lontano, il maschio stretto alla femmina: quando finalmente è pronto, invece, preferiscono dormire separati» (p. 136). Altrettanto amorevoli sono gli esemplari di gracchio corallino (pyrrhocorax pyrrhocorax), riconoscibili proprio al momento del pasto «perché si nutrono a vicenda. Per la precisione, tra i gracchi corallini è sempre il maschio che nutre la femmina» (p. 138). Varia è poi la casistica sempre a proposito di consuetudini alimentari: mentre i gracchi alpini (pyrrhocorax graculus) si dimostrano piuttosto scaltri e un poco pigri nell’abituarsi alle abitudini dell’uomo – «compaiono spesso nei pressi delle scuole all’ora della ricreazione, quando c’è la possibilità di rimediare qualche panino» e «in alta stagione sono inoltre assidui frequentatori delle piazzole di sosta e da picnic sulle Alpi» (p. 140) – i corvi della Nuova Caledonia (corvus moneduloides) amano la predazione e il suo insegnamento, e dato che «quando cacciano si muovono sempre in gruppetti da quattro a dieci individui, queste tecniche vengono tramandate di generazione in generazione» (p. 152). Si potrebbe continuare a lungo, e c’è da scommettere che alcuni dettagli rimarranno impressi senza scampo nella memoria del lettore: come dimenticare il fatto che i corvi abissini (corvus crassirostris) «grugniscono come maiali, con una sorta di grroarrr che può trasformarsi in un harr-harr irridente» (p. 156) e hanno l’abitudine a posarsi sul tetto della casa del poeta Rimbaud proprio ad Harar? E come non provare simpatia per le cornacchie grigie (corvus cornix), «volatili allegri» (p. 148) che amano giocare a fare lo scivolo sui tetti, e per gli stessi corvi imperiali (corvus corax), dotati di «un gran senso dell’umorismo» (p. 160) oltre che del volo d’uccello più elegante?
Esempio ottimamente riuscito del connubio tra narrazione pura e divulgazione scientifica, Il corvo è il libro perfetto per accontentare diverse tipologie di pubblico: la categoria degli studiosi (veterinari in generale e ornitologi in particolare) lo vorrà nella sua biblioteca per alleggerire il carico di tomi specialistici evidentemente più pesanti, mentre gli amanti degli animali e gli appassionati di bird watching vi troveranno un’utilissima bibliografia essenziale per ulteriori approfondimenti sull’argomento. Per la sua capacità di informare e nel contempo di meravigliare (in questo caso sfatando miti e contrastando pregiudizi), e non di meno per le bellissime illustrazioni a colori di cui è arricchito, il lavoro di Cord Riechelmann ha dalla sua la piacevolezza dei lavori appassionati, intelligenti, non scontati perché non compilativi. E forse è per questo che, arrivati alla fine del volume, il volatile, pur divenuto più familiare in quanto più compreso, non avrà perso nulla del proprio fascino: sarà più noto ma non per questo più banale, e ogni volta che capiterà di scorgerne qualche esemplare torneranno alla mente le parole con cui Telmo Pievani chiude il suo intervento prefatorio, invitando al rispetto di una convivenza e alla messa in discussione di un antropocentrismo sempre più insostenibile:
«questi “uccelli da forca”, questi animali così dark, gotici e punk, sanno contare almeno fino a sette e vivono anche più di cinquant’anni. Che piaccia o no a noi occidentali, il loro gracchiare accompagna le nostre giornate in ogni dove. Se saremo così stupidi da auto-estinguerci, loro ci sopravvivranno di sicuro» (p. 14).
Cecilia Mariani
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