La linea madre
di Daniel Saldaña París
Chiarelettere, 2019
Traduzione di Giulia Zavagna
pp. 200
€ 16,60 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Se hai dieci anni e se «Teresa se ne andò un martedì dopo pranzo» in un giorno di fine luglio o inizio agosto del 1994, non ricordi, perché Teresa è tua mamma e improvvisamente lei non c’è più, e rimani solo con un papà burbero e una sorella adolescente che avrebbe dovuto prendersi cura di te ma è invece tutta presa dalle sue amiche e dalla sua musica, se tutto il tuo mondo si ripiega su se stesso, cosa puoi fare? Non ti resta che dedicarti alle tue passioni, la lettura, gli origami, i sogni a occhi aperti, e trovare metodi artigianali per scappare al Rubabambini che, sei certo, verrà a trovarti di notte adesso che lei non c’è. È andata in campeggio, ti dicono, ma quando scopri che invece si è unita alla rivolta zapatista appena scoppiata in Chiapas, decidi di raggiungerla, anche se non sai di preciso quanto lontano è questo Chiapas, tu che consideri Acapulco il luogo più lontano da casa, Colonia Educación a Città del Messico (in macchina ci vogliono, oggi, circa quattordici ore, ndr). Poi passano vent’anni e quando sei un adulto nevrotico che non riesce ad alzarsi dalla parte sinistra del letto che occupi come un parassita tutto il giorno, senti l’urgenza di raccontare quell’estate che ti ha cambiato la vita per sempre, per trovare una risposta o forse, semplicemente, perché una ragione dietro quello che è successo si può ricercare solo nell’essenza stessa della memoria.
La linea madre è il secondo libro di Daniel Saldaña París, l’autore messicano (poeta prima che romanziere) dalla fama titanica in patria ma ancora poco conosciuto all’estero. Per fortuna in Italia Chiarelettere ha colmato questo vuoto con l’edizione di una storia di finzione che nel tempo brevissimo in cui la lettura si esaurisce (dato che non si riesce a staccare gli occhi dalla pagina) diventa l’autobiografia di chiunque abbia vissuto il trauma dell’abbandono e abbia attraversato un’infanzia dall’amore intermittente e, frequentemente, in solitudine. Da una prosa elegante e puntuale (egregiamente resa dalla traduzione di Giulia Zavagna) ci si aspetterebbero sottolineature e massime illuminanti segnate a bordo pagina. Invece in questo romanzo ciò non accade perché Saldaña París riesce a scrivere in maniera totale e trascinante e ogni parola possiede, in potenza, un valore immaginifico incommensurabile. Si vola verso luoghi e vicende storiche lontane, in un anno cruciale per la storia messicana – scoppia non solo la rivolta zapatista, ma viene anche firmato l’accordo di libero scambio con gli Stati Uniti e viene ucciso Luis Donaldo Colosio, il candidato alla presidenza portatore di speranza per il futuro – eppure si rimane legati alle scissioni in atto in una singola famiglia. In primo luogo questo nucleo di quattro individui è diviso tra il privato e la società: a Teresa, studentessa di scienze politiche, è sempre stato stretto il ruolo di mamma a cui il marito l’ha costretta sin dalla nascita della prima figlia. Impensabile che una donna messicana negli anni Ottanta si dedicasse all’impegno sociale e al lavoro: il suo destino era quello di badare alle faccende domestiche e all’educazione dei figli. Lo ricorda bene, il protagonista, il cipiglio duro ma sincero con cui la madre l’ha cresciuto: ai figli di Teresa non è concesso edulcorante, la realtà deve arrivare ai loro occhi così com’è. E lei, un animale ingabbiato in un ruolo che non le appartiene, in nome di quella società che non poteva affiancare alla sua vita personale, compirà una scelta ai suoi occhi necessaria, ma distruttiva per gli esseri che ha messo al mondo.
Ma la casa di Teresa è scissa anche nel genere: ci sono due mondi, quello delle donne – di cui conosciamo i nomi, Teresa appunto, e Mariana – e quello degli uomini, esseri spersonalizzati e privi di nomi. Incluso il protagonista, che pure è la prima persona narrante ma che viene incluso in quel gruppo di individui causa dei mali della società. Lui stesso capisce di non essere dalla parte giusta della barricata: la madre non ha mai negato la sua predilezione per la sorella. E se noi sappiamo che questa è la visione ingenua di un bambino un po’ geloso della maturità con cui i grandi si rivolgono ai fratelli maggiori, alla luce della conclusione scioccante della storia comprendiamo ancora meglio il punto di vista scelto e mantenuto con coerenza (sia stilistica che contenutistica) dall’autore.
La linea madre genera interrogativi universali a partire dalla vicenda personale del protagonista e della sua famiglia. Non importa se si vive a Città del Messico, Yokohama o a Copanghen: gli interrogativi sull’esistenza sono sempre gli stessi. Cosa significa crescere? Che peso ha sul nostro futuro tutto ciò che ci lasciamo alle spalle dal passato? Quali sono i modelli, se è obbligatorio sceglierli, a cui ci dobbiamo rifare per dare una direzione alla nostra esistenza? E se l’adulto che racconta in prima persona l’estate che gli cambiò per sempre la vita ne La linea madre non sembra riuscire a dare delle risposte a queste domande, qual è l’atteggiamento scelto da noi lettori di fronte a questa vicenda? Solo con il sorprendente colpo di scena finale tutto sembra tornare, in un romanzo che dimostra tutta la sua importanza letteraria e umana, in grado di scardinare l’immagine televisiva del Messico, paese in balia di narcos ed emigrati disperati, ma anche la convinzione che abbiamo, illusoriamente, di poter controllare il nostro destino.
Ma la casa di Teresa è scissa anche nel genere: ci sono due mondi, quello delle donne – di cui conosciamo i nomi, Teresa appunto, e Mariana – e quello degli uomini, esseri spersonalizzati e privi di nomi. Incluso il protagonista, che pure è la prima persona narrante ma che viene incluso in quel gruppo di individui causa dei mali della società. Lui stesso capisce di non essere dalla parte giusta della barricata: la madre non ha mai negato la sua predilezione per la sorella. E se noi sappiamo che questa è la visione ingenua di un bambino un po’ geloso della maturità con cui i grandi si rivolgono ai fratelli maggiori, alla luce della conclusione scioccante della storia comprendiamo ancora meglio il punto di vista scelto e mantenuto con coerenza (sia stilistica che contenutistica) dall’autore.
La linea madre genera interrogativi universali a partire dalla vicenda personale del protagonista e della sua famiglia. Non importa se si vive a Città del Messico, Yokohama o a Copanghen: gli interrogativi sull’esistenza sono sempre gli stessi. Cosa significa crescere? Che peso ha sul nostro futuro tutto ciò che ci lasciamo alle spalle dal passato? Quali sono i modelli, se è obbligatorio sceglierli, a cui ci dobbiamo rifare per dare una direzione alla nostra esistenza? E se l’adulto che racconta in prima persona l’estate che gli cambiò per sempre la vita ne La linea madre non sembra riuscire a dare delle risposte a queste domande, qual è l’atteggiamento scelto da noi lettori di fronte a questa vicenda? Solo con il sorprendente colpo di scena finale tutto sembra tornare, in un romanzo che dimostra tutta la sua importanza letteraria e umana, in grado di scardinare l’immagine televisiva del Messico, paese in balia di narcos ed emigrati disperati, ma anche la convinzione che abbiamo, illusoriamente, di poter controllare il nostro destino.
Federica Privitera