di Don DeLillo
Einaudi, 2000 (prima
edizione americana 1988)
Traduzione
di Massimo Bocchiola
pp. 423
€ 14
(cartaceo)
€ 6,99 (ebook)
€ 6,99 (ebook)
Da dove cominciare a leggere Don DeLillo? Dal grezzo “Americana” o dal tre stelle Michelin “Underworld”?
In medio stat virtus, dicevano i
saggi, quindi perché non dalla vicenda
Kennedy rimescolata in maniera distonica?
In effetti, siamo tra la testa e la coda dell’evoluzione di questo figlio d’immigrati
molisani. Il Kennedy in questione invece è John Fitzgerald e non Robert,
dunque: Dallas, 22 novembre 1963. Ma questa è la fine.
Andiamo per ordine. Già, ma con DeLillo è una battaglia persa
in partenza. Eppure un libro, almeno plasticamente, ha un inizio e un epilogo, la
pagina 1 e l’ultima. Dopo di che lo chiudi e… o lo scaraventi alla parete o lo
culli come un figlio. Pagina 1 di “Libra” proietta in un’efficace atmosfera di solitudine
e binari metropolitani. Signore e signori, ecco a voi Lee Harvey Oswald alle prese con le radici dei suoi capricci e della
sua impossibilità di sognare all’americana. L’infanzia, gli stenti, la
madre, le vessazioni, la dislessia, la rabbia, la voglia di riscatto, le
letture marxiste, i Marines, la Russia sovietica, il matrimonio con Marina, che
non capisci se sia bella o un cesso, forse è bella ma poi si trascura e
abbrutisce, vattelappesca, e somiglia tanto a un paradigma valido per l’intero
discorso, il ritorno negli Usa con prole e consorte, l’essere individuato come
capro espiatorio, agnello sacrificale, da una banda di frustrati fanatici.
Perché il romanzo non è sul presidente Kennedy ma prima di tutto sul
disadattato Oswald. Be’, allora è facile. No.
C’è un secondo piano: i frustrati fanatici, per l’appunto. Si
parte da Win Everett, uno che la
Cia ha confinato in un istituto scolastico femminile a
insegnare stronzate, mentre prima… prima sì che andava alla grande: l’agenzia, la
gerarchia, le riunioni top secret. A un certo punto, però, questo meccanismo fa
una gigantesca figuraccia con la
Baia dei Porci. E i responsabili sono mandati a tenere
inutili lezioni. In questo brodo di rivalsa, Win raduna un paio di snaturati e in
una strada sterrata propone: vogliamo
rovesciare Castro? Spariamo a JFK. La colpa sarà addebitata a quel
maledetto comunista. Perché? - fanno gli altri. E Win: perché l’attentato si svolgerà
a Miami, a due orette di lancia da L’Avana. La gente penserà subito: che ci
vuole a Castro per armare un po’ di spie e sbarcarle in Florida? È stato lui
per forza.
Cazzo, ma parliamo del presidente - fanno ancora gli altri. E
Win: sì ma mica lo dobbiamo ammazzare. Basterà mancarlo. L’attentato farà
comunque salire un moto d’indignazione tale nell’opinione pubblica da spingere
il governo, stringi stringi proprio JFK, a ordinare un’invasione seria e compiuta,
non la pagliacciata dei quattro debosciati alla baia. Tenete presente: Miami e un colpo a vuoto.
Il problema nasce qui: mentre il romanzo prosegue alternando
i flussi narrativi, ovvero la vita di Oswald e le trame degli ex agenti della
Cia sbattuti ai margini, di ex-Fbi a cui non è andata meglio, di cubani
anticastristi, noblesse oblige, di italianissimi faccendieri, ri-noblesse, viene
da chiedersi: com’è che si arriva a Dallas
e a pianificare un assassinio? Sì, a un certo punto, mentre monta la
caciara, riappare un tale, T-Jay Mackey, che cela il piccolo particolare del
colpo a vuoto: sai com’è, con un attentato di mezzo un morto ci scappa per definizione.
Mezza riga, il minimo sindacale, scaraventata nel gorgo d’intrecci da cui si districano
con fatica i personaggi, che hanno peraltro tutti nomi di copertura citati
quasi alla rinfusa, e questo incasina ulteriormente la situazione, vite private,
chilometri da percorrere non si sa per dove, contatti da mantenere, strategie
da difendere. Che muoiono come mosche. Ce ne accorgiamo dai freddi elenchi, che
contengono un accenno sulle cause dei decessi, seppelliti in mezzo ad altri
discorsi, senza andare per il sottile.
Se vogliamo più introspezione, bisogna intercettare Nicolas Branch, alter ego di DeLillo, in
pratica il terzo piano, incaricato di preparare un dossier sul complotto.
Chiuso in una stanza, tra migliaia di documenti, reperti, fotografie, perizie
balistiche, testimonianze, una mole impressionante di dati da cui non se ne
esce, rappresenta uno spunto molto interessante su quella che può essere la
posizione di uno scrittore, che squarcia veli per mestiere, in una società
dominata invece dalle trame del potere.
A forza d’insistere su tutto e il contrario di tutto, DeLillo
ci spinge nelle braccia di Oswald, non fosse altro che per riveder le stelle dopo le cortine fumogene. D’altronde, d’estate
quando leggo mica voglio andare al manicomio. Al suo ritorno dalla Russia,
deluso come un innamorato cornuto, Oswald viene intercettato dalla cricca,
sempre molto fluida in verità, e si vede assegnato un ruolo ambiguo. Ma pure in
questo frangente, la necessaria enigmaticità
del compito finisce per tradursi, narrativamente, in qualcosa che s’incarta
e che rende poca giustizia allo sviluppo, che poi è il precipitare degli eventi
in cui la città prescelta è diventata Dallas, c’è una scarica di fucilate, in
cui Oswald non fa certo la figura del cecchino e che tuttavia basta allo scopo.
Anzi, agli scopi: togliere di mezzo Kennedy e consegnare il capro espiatorio
Lee Harvey. E dopo qualche giorno, Jack Ruby lo sistemerà per bene.
Ecco perché è un libro
distonico: ci sono due piani, anche
tre, che da una parte regalano spunti interessanti e dall’altra fiaccano la lettura,
come quando tra le due sezioni del sistema nervoso neurovegetativo manca la
normale armonia e una pompa adrenalina e una provoca le paturnie.
E per un libro - a proposito, serve una lente d’ingrandimento
o il solleone per non finirsi la vista dinanzi al carattere utilizzato
dall’edizione Einaudi - che s’intitola “Bilancia”,
in teoria come omaggio al segno zodiacale di Oswald e come sottile metafora
della sua incapacità di darsi pace, il poco Equilibrio
mi è parso un ossimoro pruriginoso.
Marco Caneschi