Oggetti smarriti.
Piccolo catalogo delle cose perdute
di Giorgio Maimone e Luca Pollini
Morellini Editore, 2019
pp. 135
€ 14,90 (cartaceo)
Conosciamo tutti il significato dell’espressione “obsolescenza programmata”, anche se tendiamo a circoscriverne il raggio d’azione alla sfera che comprende tecnologia, elettronica e meccanica. Epperò, nel limitare il concetto solo a ciò che coinvolge inventori, ingegneri e scienziati non ci rendiamo conto di fare un torto nientemeno che alla totalità degli oggetti, degli usi e dei costumi esistiti ed esistenti. Perché ogni “cosa”, sia essa materiale o immateriale è – con rare eccezioni – destinata a entrare e poi a uscire dalle abitudini della comunità che l’ha desiderata, ideata, creata e messa in essere: l’evoluzione, l’aggiornamento e il progresso sono, per farla breve, il fiat lux ma anche il memento mori della vita pratica e associata intesa nel suo complesso. Dunque, per citare un soave motivetto di Charles Trenet, que reste-t-il de nos amours quando questi hanno le sembianze di oggetti o consuetudini che a poco a poco scompaiono? È semplice: vivono nel ricordo (auspicabilmente a lungo, se non per sempre), e di tanto in tanto, incredibile ma vero, ritornano. A volte, poi, sono addirittura protagonisti di libri a tema, come quello scritto a quattro mani da Giorgio Maimone e Luca Pollini, appena dato alle stampe da Morellini Editore e dal titolo inequivocabile di Oggetti smarriti. Piccolo catalogo delle cose perdute.
Chi ha già avuto modo di leggere Immortali di Luca Pollini, pubblicato nel 2016, ricorderà la passione del suo autore per la storia del costume e, se così si può dire, del consumismo. Ma se in quel caso si rendeva omaggio alla gloria di quei beni entrati per sempre nei carrelli della spesa degli italiani, il volume appena pubblicato, scritto di concerto con un “complice” non meno sensibile ai casi della cultura materiale, rivolge invece la sua attenzione a tutti quegli oggetti – 102 per la precisione – che hanno vissuto o stanno vivendo una parabola discendente senza possibilità di revival (o quasi), in base a quella che ne viene definita l’inevitabile “evanescenza”:
Piccolo catalogo delle cose perdute
di Giorgio Maimone e Luca Pollini
Morellini Editore, 2019
pp. 135
€ 14,90 (cartaceo)
Conosciamo tutti il significato dell’espressione “obsolescenza programmata”, anche se tendiamo a circoscriverne il raggio d’azione alla sfera che comprende tecnologia, elettronica e meccanica. Epperò, nel limitare il concetto solo a ciò che coinvolge inventori, ingegneri e scienziati non ci rendiamo conto di fare un torto nientemeno che alla totalità degli oggetti, degli usi e dei costumi esistiti ed esistenti. Perché ogni “cosa”, sia essa materiale o immateriale è – con rare eccezioni – destinata a entrare e poi a uscire dalle abitudini della comunità che l’ha desiderata, ideata, creata e messa in essere: l’evoluzione, l’aggiornamento e il progresso sono, per farla breve, il fiat lux ma anche il memento mori della vita pratica e associata intesa nel suo complesso. Dunque, per citare un soave motivetto di Charles Trenet, que reste-t-il de nos amours quando questi hanno le sembianze di oggetti o consuetudini che a poco a poco scompaiono? È semplice: vivono nel ricordo (auspicabilmente a lungo, se non per sempre), e di tanto in tanto, incredibile ma vero, ritornano. A volte, poi, sono addirittura protagonisti di libri a tema, come quello scritto a quattro mani da Giorgio Maimone e Luca Pollini, appena dato alle stampe da Morellini Editore e dal titolo inequivocabile di Oggetti smarriti. Piccolo catalogo delle cose perdute.
Chi ha già avuto modo di leggere Immortali di Luca Pollini, pubblicato nel 2016, ricorderà la passione del suo autore per la storia del costume e, se così si può dire, del consumismo. Ma se in quel caso si rendeva omaggio alla gloria di quei beni entrati per sempre nei carrelli della spesa degli italiani, il volume appena pubblicato, scritto di concerto con un “complice” non meno sensibile ai casi della cultura materiale, rivolge invece la sua attenzione a tutti quegli oggetti – 102 per la precisione – che hanno vissuto o stanno vivendo una parabola discendente senza possibilità di revival (o quasi), in base a quella che ne viene definita l’inevitabile “evanescenza”:
«oggetti smarriti, oggetti perduti, oggetti amati e dimenticati. Osserviamo l’evanescenza degli oggetti, il momento in cui iniziano a entrare in quel viale del tramonto che li spingerà a sparire, senza che ce ne accorgiamo. Alcuni hanno segnato intere generazioni, altri sono passati come una nuvola sospinta dal vento» (p. 11).
Decisi a indagare proprio questa «Twilight Zone» – ovvero quell’interregno spazio-temporale in cui «gli oggetti non sono ancora spariti ma potrebbero farlo, mentre altri, misteriosamente, sono tornati in vita, magari una vita diversa» (p. 11) – i due autori hanno compiuto un’operazione di consapevole auto-archeologia occidentale e peninsulare, quasi fossero novelli «Indiana Jones» (p. 12) alle prese con i cambiamenti della quotidianità italiana. Il tutto nella consapevolezza che la sparizione di un oggetto non è mai senza conseguenze, e che la trasformazione degli stili di vita ha sempre un impatto importante anche sull’economia, con il fallimento di interi settori del business e il decadimento di alcune professioni (vedere alle voci: benzinaio, cassiera, comparsa, giornalista, portinaia) Ad ogni modo, e per esplicita ammissione, così come il movente del volume non è né passatista né nostalgico, anche il suo intento non vuole essere critico o polemico: in poco meno di centocinquanta pagine sfileranno davanti agli occhi del lettore le brevi storie di quelli che gli autori definiscono “cari estinti” (oggetti morti anche nel ricordo, usciti una volta per tutte dall’uso), “a fine corsa” (agonizzanti, vicini alla soglia con l’insegna al neon “Exit” scritta a caratteri cubitali) e “resuscitati”, ovvero «prodotti che hanno fatto un percorso di andata e ritorno» (p. 159) (pochissimi a dire il vero: calciobalilla, dischi in vinile, fantascienza, giochi di società, libri cartacei, monopattini e orologi).
Si stava meglio quando si stava peggio? Chissà. Di certo si resta colpiti nel constatare come la più alta percentuale degli oggetti caduti in disuso riguardi il nostro modo di comunicare, lavorare e tenerci informati: chi di noi tornerebbe senza rimpianti all’epoca in cui enciclopedie in volume, block notes, carta carbone, fax, floppy disk, gomme da inchiostro, macchine per scrivere, segnale orario, Televideo, Videtoel, cartoline, cercapersone, cabine, gettoni ed elenchi del telefono erano le colonne d’Ercole esclusive della vita d’ufficio, dello scambio di notizie e dell’aggiornamento? Se è vero che, stando agli autori, per parecchi dei delitti citati ci sarebbe da accusare un unico serial killer (ma questo commento non ne rivelerà l'identità), la risposta a una tra le domande retoriche più ricorrenti quando si mette al centro il confronto tra passato e presente resta sempre e comunque aperta; gli stessi Pollini e Maimone, del resto, non fanno mancare la disamina dei pro e dei contro nel corso della loro trattazione, suddivisa in prose brevi che vanno dalla mezza alle tre pagine. E se in alcuni casi la risposta è implicita – come quando ci ricordano che «là, dove una volta c’era il flipper oggi sono installati slot, videolottery, e videopoker» (p. 61) – in generale le “schede” non hanno mai un doppio fondo moralistico, consistendo sempre di una descrizione arricchita da un ricordo personale dei redattori, i quali, nel prendere atto dei cambiamenti, si appellano spesso e volentieri al potere salvifico dell’umorismo e dell’ironia. Si legga, a titolo di esempio, questa nota relativa allo smantellamento dei vespasiani:
Si stava meglio quando si stava peggio? Chissà. Di certo si resta colpiti nel constatare come la più alta percentuale degli oggetti caduti in disuso riguardi il nostro modo di comunicare, lavorare e tenerci informati: chi di noi tornerebbe senza rimpianti all’epoca in cui enciclopedie in volume, block notes, carta carbone, fax, floppy disk, gomme da inchiostro, macchine per scrivere, segnale orario, Televideo, Videtoel, cartoline, cercapersone, cabine, gettoni ed elenchi del telefono erano le colonne d’Ercole esclusive della vita d’ufficio, dello scambio di notizie e dell’aggiornamento? Se è vero che, stando agli autori, per parecchi dei delitti citati ci sarebbe da accusare un unico serial killer (ma questo commento non ne rivelerà l'identità), la risposta a una tra le domande retoriche più ricorrenti quando si mette al centro il confronto tra passato e presente resta sempre e comunque aperta; gli stessi Pollini e Maimone, del resto, non fanno mancare la disamina dei pro e dei contro nel corso della loro trattazione, suddivisa in prose brevi che vanno dalla mezza alle tre pagine. E se in alcuni casi la risposta è implicita – come quando ci ricordano che «là, dove una volta c’era il flipper oggi sono installati slot, videolottery, e videopoker» (p. 61) – in generale le “schede” non hanno mai un doppio fondo moralistico, consistendo sempre di una descrizione arricchita da un ricordo personale dei redattori, i quali, nel prendere atto dei cambiamenti, si appellano spesso e volentieri al potere salvifico dell’umorismo e dell’ironia. Si legga, a titolo di esempio, questa nota relativa allo smantellamento dei vespasiani:
«a Milano ce n’era uno anche in piazza Fontana, dove si poteva adempiere ai propri bisogni guardando le guglie del Duomo. Vuoi mettere che piacere? Si guardava il pennone della Madonnina, poi si abbassava lo sguardo, si scrollava il capo e si chiudeva la cerniera. Confronto impietoso. E senza Madonnina» (p. 121).
Sebbene legato da una stretta parentela con il già citato Immortali, di cui si pone come prosecuzione concettuale per quanto in antitesi, Oggetti smarriti lascia dietro di sé una scia ben diversa, “fantasmatica” e vagamente malinconica. Mentre il libro precedente celebrava il trionfo sulla morte da parte di marchi e beni di consumo, esaltando i singoli prodotti con l’aggiunta di belle fotografie a colori che risultavano efficaci come nelle migliori pubblicità, il lavoro di Pollini e Maimone somiglia più a una miscellanea di “coccodrilli” scritti in memoria delle cose e delle abitudini che furono. Forse anche perché privo di immagini – chi scrive questo commento ci avrebbe visto bene delle illustrazioni speculari a tutta pagina – il tono generale del volume rischia di apparire un po’ più dimesso e quasi compilativo: a scongiurare il pericolo di un’eccessiva mestizia, tuttavia e per fortuna, è lo stile degli autori, sempre brioso e gradevole nel suo dosaggio di elementi denotativi puri e divagazioni personali. Del resto, come già per il libro del 2016, anche in questo caso il livello di coinvolgimento sentimentale del lettore dipenderà molto dalla sua età anagrafica, e dunque dall’avere avuto o meno esperienza diretta dei fenomeni che sono al centro della trattazione: ciò che per alcuni sarà ricordo, per altri sarà scoperta. Se è vero che «la cultura materiale ormai fa più storia della Storia e non esiste Storia senza memoria» (p. 12), resta valida per tutti la sempre preziosa testimonianza di uno spaccato di vita materiale del nostro Paese, e la certezza che, per quanto gli oggetti in esame possano definirsi smarriti o perduti, il loro passaggio negli usi e costumi italiani ha contribuito profondamente alla definizione della nostra identità.
Cecilia Mariani
Cecilia Mariani
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