Pink Tank.
Donne al potere. Potere alle donne
di Serena Marchi
Fandango Libri, 2019
pp. 208
€ 16,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Recita un vecchio adagio: “donne e motori, gioie e dolori”. Ebbene: smascherando il doppiofondo maschilista nascosto in un proverbio che in fin dei conti equipara individui di sesso femminile a veicoli a ruote da pilotare, si potrebbe aggiungere che i patimenti non sono minori quando le figlie di Eva pretendono di occupare i sedili di guida alla pari dei discendenti di Adamo. Apriti cielo, apriti terra e apriti mare: fine di ogni edenico idillio, hic incipit vita politica. O perlomeno, così stanno le cose in Italia da molti (troppi) anni a oggi. Se ne chiacchiera più meno oziosamente da tempo, ma, dati e statistiche alla mano, se ne è oggettivamente convinta Serena Marchi, giornalista e scrittrice che per parlare di un argomento ad alta percentuale di scontro frontale ha messo al centro del suo ultimo libro un’idea interlocutoria plurale, tanto semplice quanto esplicita: intervistare diciotto esponenti delle pubbliche istituzioni nostrane per farsi raccontare dalla loro viva voce lo stato di salute della rappresentanza “rosa” nei luoghi in cui si decidono le sorti del Paese. Il risultato – per l’appunto e come da titolo del volume, appena pubblicato da Fandango – è un Pink Tank: un “carro armato” da condurre in quella che a tutti gli effetti ha ancora l’aspetto di una guerra per l’esistenza, ma anche un “contenitore” di risposte in prima persona e di ancor più utili domande.
Donne al potere. Potere alle donne
di Serena Marchi
Fandango Libri, 2019
pp. 208
€ 16,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Recita un vecchio adagio: “donne e motori, gioie e dolori”. Ebbene: smascherando il doppiofondo maschilista nascosto in un proverbio che in fin dei conti equipara individui di sesso femminile a veicoli a ruote da pilotare, si potrebbe aggiungere che i patimenti non sono minori quando le figlie di Eva pretendono di occupare i sedili di guida alla pari dei discendenti di Adamo. Apriti cielo, apriti terra e apriti mare: fine di ogni edenico idillio, hic incipit vita politica. O perlomeno, così stanno le cose in Italia da molti (troppi) anni a oggi. Se ne chiacchiera più meno oziosamente da tempo, ma, dati e statistiche alla mano, se ne è oggettivamente convinta Serena Marchi, giornalista e scrittrice che per parlare di un argomento ad alta percentuale di scontro frontale ha messo al centro del suo ultimo libro un’idea interlocutoria plurale, tanto semplice quanto esplicita: intervistare diciotto esponenti delle pubbliche istituzioni nostrane per farsi raccontare dalla loro viva voce lo stato di salute della rappresentanza “rosa” nei luoghi in cui si decidono le sorti del Paese. Il risultato – per l’appunto e come da titolo del volume, appena pubblicato da Fandango – è un Pink Tank: un “carro armato” da condurre in quella che a tutti gli effetti ha ancora l’aspetto di una guerra per l’esistenza, ma anche un “contenitore” di risposte in prima persona e di ancor più utili domande.
La prima interrogazione necessaria, in ogni caso, è quella dell’autrice, che parte da una serie di dati a prova di confutazione:
«chissà perché da noi si fa così tanta fatica ad accettare che le donne stiano ai posti di comando. Chissà perché il nostro paese non ha ancora avuto una Premier, una Presidente della Repubblica e perché le leader a capo dei partiti siano pochissime. Chissà quali sono le storie delle principali donne che invece, nelle stanze dei bottoni, in Italia, ci sono arrivate. Donne di ieri e di oggi, giovani e adulte, di destra, sinistra e centro che là, nel cuore decisionale, siedono o si sono sedute. Perché del potenziale femminile si parla troppo poco. E si riflette ancor meno sul possibile “Pink Tank”, ossia un serbatoio di pensiero tutto rosa» (pp. 9-10).
Qualora ciò non bastasse per immaginare la vis che anima l’intero volume, basterà leggere in aggiunta l’efficacissimo brano prescelto per l’epigrafe, affidata alle parole di una giornalista come Natalia Aspesi, per nulla accomodante e da sempre attenta alle questioni femminili tanto nel pubblico quanto nel privato. Vale la pena riportarla per intero, anche (ma non solo) per godere della prosa bella e senza scampo che da sempre caratterizza la firma dello storico caschetto biondo della carta stampata italiana:
«un tempo c’erano le madonne e le puttane, e ogni donna aveva la sua collocazione e la sua funzione. Adesso le donne invadono luoghi, per esempio gli anfratti della politica, dove per secoli avevano diritto di accesso solo gli uomini. Che se le trovano sempre tra i piedi, un po’ puttane forse, visto che se fossero madonne starebbero a casa. Certe addirittura ai vertici del potere, e va bene la parità, ma non esageriamo: si ricordano uomini importanti sghignazzare su donne che non avrebbero dovuto essere importanti in quanto culone, vecchie, inscopabili e far arrivare anche al governo le meritevoli, cioè le giovani e belle, idealmente scopabilissime. Urge una riflessione sul complesso di inferiorità degli uomini, che quelle cose là pensano di non meritarsele gratis, e si sentono costretti a pagare, con denaro o addirittura poltrone, le gentili officianti e parenti. Quelle che ci arrivano per conto loro, alle poltrone, devono per forza essere un nuovo tipo di puttana esente da baratti sessuali: quindi meritevoli di insulti».
Diciotto donne della politica italiana, si diceva, e appartenenti a ogni schieramento. Sono – in ordine alfabetico, sebbene il volume privilegi un andamento più casuale e un’introduzione dell’intervistata che si appella al solo nome di battesimo – Emanuela Baio, Paola Binetti, Laura Boldrini, Emma Bonino, Mara Carfagna, Luciana Castellina, Monica Cirinnà, Anna Finocchiaro, Mariapia Garavaglia, Elisabetta Gardini, Cécile Kyenge, Marianna Madia, Giorgia Meloni, Rosa Menga, Irene Pivetti, Daniela Santanchè, Elly Schlein e Livia Turco. A ciascuna Serena Marchi a posto le stesse essenziali domande circa infanzia e trascorsi familiari, genesi della passione per la “cosa pubblica”, evoluzione della propria militanza, confronto con lo status quo. A tutte ha parimenti chiesto che cosa significhi lavorare in ambienti di domino tradizionalmente maschile quali le sezioni di partito, le aule del Parlamento e del Senato, i salotti dei talk show televisivi ad alto tasso di “infotaiment”, in cui il solo fatto di non essere uomo espone a critiche che vanno ben oltre lo specifico dei temi e problemi di una nazione come l’Italia, nel bel mezzo di una crisi trasversale ancora ben lontana dall’essere pacificata. E se le testimonianze, prevedibilmente e necessariamente, divergono nel momento in cui le intervistate si trovano a dichiarare il proprio schieramento ideale (ideologico?), conforta il sostanziale accordo delle intervistate sull’importanza dell’esserci e dell’agire: perché non c’è nessuna motivazione scientifica che precluda alle donne la capacità di rivestire ruoli, assumersi responsabilità, prendere decisioni a livelli superiori anche rispetto a quelli ministeriali o legati alla presidenza delle assemblee. Le ragioni di tanta ostinata resistenza nei loro confronti sono solo culturali – di una cultura profondamente maschilista, patriarcale, proprietaria, gerarchica, padronale e con una forte divisione dei ruoli – avvalorate da pregiudizi e luoghi comuni duri a morire: i rapporti di forza in politica, dopotutto, non sono altro che lo specchio perfetto di quelli esistenti nel sociale.
Per far cambiare idea a chi accusa attiviste e deputate di perdere energie a “pettinare le bambole”, discorrendo di questioni di principio per assenza ontologica di pragmatismo, basterebbe fare un elenco sommario delle tematiche che entrano in gioco nel momento in cui queste scelgono di partecipare alla vita pubblica, magari con qualche ambizione: gli annodamenti a cui si va incontro nello svolgimento dell’esercizio sono spesso talmente inestricabili ed esasperanti da suggerire l’opzione vigliacca di una rasatura. Volendo cominciare dalle motivazioni pratiche, se la strada della parità si conferma ancora così lunga, ripida e accidentata è perché l’Italia, ad oggi, si ritrova priva di una struttura sociale che aiuti le donne a fare politica senza porle di fronte all’alternativa di avere successo nella vita pubblica o in quella privata, di fatto ostacolando il loro eventuale desiderio di essere mogli e madri. Una volta compiuta a malincuore la scelta e accettata la rinuncia – ben più faticosi i casi di chi invece pretende di conciliare con successo ogni impegno – si scopre poi che gli stessi rapporti tra colleghe non sono sempre idilliaci, specialmente quando ci si vorrebbe proporre in qualità di leader (concetto già messo in crisi dalla generale reticenza all’insegnamento e alla transitività di un sapere produttivamente tramandato): ecco allora che le cosiddette sindromi dell’ape regina e della prima della classe fanno il paio con quelle forme di competizione che impediscono di creare una vera rete femminile, mentre la solitudine delle donne brave all’interno dei partiti si scalda al fuoco perenne della resistenza all’autopromozione e della tendenza all’avvilimento.
Peggio ancora vanno le cose per le donne naturalmente dotate di una gradevolezza del sembiante conforme ai canoni estetici occidentali: le questioni legate all’immagine, con i media (mass e social) pronti a giocare al massacro con l’identità vera e virtuale delle malcapitate, vanno a braccetto con la compiacenza nei confronti della controparte maschile, dal momento che non sono rari i casi di opportunismo politico basati su rapporti di sesso, corpo e bellezza. Che dire poi della pessima abitudine a relegare le donne in ambiti considerati di dominio femminile, vale a dire quelli legati ai temi classici del sociale, della famiglia, della salute? Per quanto importanti siano stati i risultati ottenuti nell’ambito dei diritti civili, altrove le donne continuano a essere considerate delle presenze intruse alla pari degli stranieri: ne sono prova la stessa struttura maschilista dei partiti – con l’eccezione dell’organigramma di quello dei Radicali e di Fratelli d’Italia, l’unico con a capo una donna – e il fatto che nessuna tra le senatrici a vita ricopra la carica per meriti squisitamente politici. Annosa e cruciale, infine, la questione legata alle rappresentanza di genere intesa anche in senso numerico, dal momento che discutere di quote rosa e di sezioni femminili è argomento che ancora divide profondamente le intervistate: se da una parte c’è chi le considera una grande vittoria alla pari delle Commissioni delle Elette e dei Comitati per le pari opportunità, dall’altra c’è chi le intende alla stregua di una “riserva rosa” e punta tutto sulla meritocrazia, la quale terrebbe alla larga dalle insidie della filiazione; nel mezzo (laddove forse sta la vera virtus) il punto di vista di chi le considera un equilibratore temporaneo e un male necessario, da abolire solo dopo che il gap culturale sarà stato finalmente colmato.
Sarà vero, come sostiene una delle interlocutrici di Serena Marchi, che la vera parità di genere sarà raggiunta solo quando la donna meno dotata intellettualmente ricoprirà la carica più importante? A chi scrive questa recensione piace pensare che si tratti di puro gusto per il paradosso. Ma Pink Tank, in fin dei conti, è anche questo: un omaggio e un invito all’eterogeneità delle posizioni per quanto distanti e contrastanti esse siano, uno spazio di confronto fatto libro in cui chi legge ha il compito di trarre da sé le sue conclusioni. Come sta scritto sul retro di copertina, “potere” è un “sostantivo, maschile, singolare”: farne una questione linguistica e settaria (magari ribattezzandolo “potera” e baloccandosi con la sua gestione esclusiva in governi alternativi e paralleli) non farebbe evolvere granché l'elaborazione del problema. Questa miscellanea di interviste è un ottimo punto di partenza per tenere viva l’attenzione su una faccenda che dovrebbe stare a cuore a chiunque, uomo o donna, elettore o elettrice, oggi e soprattutto in previsione di un domani che si vorrebbe meno schiavo delle questioni di genere e più libero di agire per il bene di una “cosa pubblica” indipendente dai valori cromatici: né azzurra né rosa, pacificamente arcobaleno.
Cecilia Mariani
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