di Ricardo
Piglia
Edizioni Sur,
2012 (prima edizione argentina 1980)
Traduzione
di Gianni
Guadalupi
pp. 277
€ 16
(cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
€ 9,99 (ebook)
Se avete la passione per il
labirinto, questo libro fa al caso vostro. Ma se ritenete che il romanzo debba
essere più esplicito, alleggerito da incursioni saggistiche, lasciate perdere. Messa
così, rischio di dare un colpo di accetta. O di qua o di là. Personalmente sto
dalla parte dei buoni, ovvero di chi ha apprezzato, ma bisogna fare più
chiarezza. Intanto, ci sono un sacco di rimandi a una serie di politici e letterati
argentini che occorrerebbe essere specialisti della storia albiceleste. Una scocciatura non da poco, perché dispiace scoprirsi
impreparati. Tuttavia, è anche vero che l’edizione è accompagnata da un’appendice di note che tornano utili
e chiariscono il ruolo di tutti i personaggi citati, da Juan Domingo Perón agli esimi sconosciuti.
S’interrompe un attimo la lettura del testo, si va in fondo al libro, si
scaccia l’ignoranza e si riparte.
Al netto degli eureka!, la famosa lampadina dei fumetti
che accende la luce in testa, in effetti il romanzo resta… scarsamente
illuminato. Nella prima parte c’è un epistolario tra uno zio e un nipote. La
seconda si regge invece su un dialogo, anzi un monologo che lo stesso nipote si
deve sorbire da un esule polacco, in una città che pare collocata alla fine
della pampa. O addirittura del mondo. Sembra di avere a che fare con un genere
poliziesco ma le aspettative vengono deluse. E in questo pellegrinaggio letterario, alquanto straniante, c’è spazio per teoria
e filosofia. Ma risaliamo subito la corrente.
Innanzitutto, qualcosa Piglia
doveva inventarsi visto che ha partorito l’opera tra il 1977 e il 1980, non
proprio l’epoca d’oro per l’Argentina e per chi osava opporsi apertamente ai
generali. Come vuoi che sia un romanzo circondato dal lato oscuro? Oscuro, no? E
allora diamo tempo al tempo e riconosciamo a Piglia di avere risposto comunque
all’esigenza - o necessità? - di dire senza dire, facendoci partecipi del rumore di fondo della dittatura. Parlarne
senza parlarne, affidandosi a un clima guasto, a qualcosa che non torna, a un
particolare che agita e richiamando, di tanto in tanto, la presenza di un
oscuro indagatore che sta leggendo, per decifrarlo a suo uso e consumo, il
materiale in suo possesso.
Una figura incerta come i
contorni di una casa sommersa dal buio, disseminata tra le pagine in maniera
giusta, come i sassolini che permettono di rintracciare un sentiero. Chi sta
spiando? E perché? Domande che fondamentalmente resteranno prive di risposta,
anche se il lettore qualcosa abbozza, in particolare sul chi. Deve però bastare il porsi la questione perché è così che si resta sul crinale dell’interrogativo.
Non è sul precipizio paventato che puntano, da che mondo è mondo, i
totalitarismi?
Quei sassolini portano a
Concordia, la città lontana, dove zio e nipote si sono dati appuntamento. Il
primo si chiama Marcello Maggi, professore
dal passato torbido, intento a scrivere un libro su un certo Enrique Ossorio,
morto suicida e additato come traditore della patria, su cui possiede una
corposa documentazione. Siccome fiuta l’aria, Maggi a forza di lettere convince
il secondo, Emilio Renzi, a custodirla personalmente. Ma anche Renzi nel
frattempo non è stato con le mani in mano, ha anzi pubblicato un romanzo sullo
zio. Gli intrecci sono anche di parentela, perché Maggi ha sposato una
discendente di Ossorio e non è che sia andata benissimo.
A Concordia, Renzi trova
Tardewsky, l’esule polacco, allievo di Wittgenstein, che, in attesa di Maggi, lo
rende partecipe di una tesi affascinante
sull’incontro tra Kafka e Hitler a Praga e sul parallelo tra gli ultimi
giorni di vita dello scrittore boemo e la stesura del “Mein Kampf”. La notte è
lunga, c’è tempo di ascoltare e capire dove Tardewsky voglia arrivare, ovvero
alle soglie dell’inquietudine, quella che attanagliava Kafka quando il futuro führer gli
rovesciava addosso i suoi deliri. E di cui si liberava attraverso
la scrittura. L’unico strumento per mettere in guardia. E Maggi? Di lui nessuna
traccia. Se non le sue carte, affidate a Tardewsky.
Quanti personaggi indiretti ci
sono! Che appaiono senza apparire. Che assumono forma grazie ad altri e che contribuiscono
a dare loro forma. Dire senza dire.
Che poi, si può anche tradurre, dal punto di vista dello scrittore e del suo
rapporto con noi: prendere o lasciare. Sarà un caso, ma l’Argentina è la patria
del levare, il non detto della musica.
Eppure le pulsazioni esistono lo stesso.
La scrittura, quindi. Ecco quello
che dovete cercare in questo romanzo. Non
una trama compiuta ma il senso di un lascito, di un eredità che viene da
lontano, perché scrivere non è altro che riscrivere, utile per condividere ciò
che accade o potrebbe accadere. Piglia, che dal suo appartamento vedeva sfilare
il regime militare e che non ha neppure riletto “Respirazione artificiale”, non
per pigrizia o perché gli hanno fatto irruzione in casa quanto perché ritenuto
adeguato così, ci narra del suo metodo di utilizzo di quell’eredità, consapevole
che la produzione sarà sempre di seconda mano, in sostanza una finzione. E allora tanto vale spingere l’approccio
alle estreme conseguenze e ammiccare, fare uso di codici, disseminare tracce
nascoste. D’altronde Kafka alle farneticazioni di Hitler mica rispose con
editoriali espliciti o con proclami ai quattro venti. Scrisse “Il castello” e
“Metamorfosi”.
Marco Caneschi