Il passo del vento - Sillabario alpino
di Mauro Corona e Matteo Righetto
Mondadori, 2019
pp. 224
€ 18,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
«Larice. Il più bell'albero della montagna. Ogni buon montanaro ha un larice preferito, ma quale sia e dove si trovi deve rimanere un segreto tra lui e l'albero, pena la trasformazione dell'uomo in una martora». (p. 113).
«Trascorrevano i giorni dentro inverni antichi, fatti di neve, gelo e silenzi, magie e misteri, cose ormai scomparse». (p. 98)
Di Mauro Corona sappiamo tutto, o quasi. Montanaro, scalatore (ha aperto diverse vie d'arrampicata), intagliatore, scrittore, testimone del Vajont, la diga-mostro che nei suoi libri torna spesso a rievocare fantasmi antichi, fascinoso affabulatore (ultimamente ospite fisso in tv) e cantore della montagna, delle sue gioie e delle sue asprezze. Di Matteo Righetto, forse, conosciamo meno. Ma vi basti dire che è opera sua "La pelle dell'orso", il bellissimo libro da cui è stato tratto un altrettanto bel film con protagonista Marco Paolini. Autore di romanzi e di pièce teatrali, studioso di Letteratura ambientale e del paesaggio e soprattutto grande amante e conoscitore della montagna.
Che cosa poteva scaturire dall'incontro letterario tra questi due personaggi, così diversi tra loro, ma così legati da un unico grande amore, la montagna? Un libro di grande profondità e di respiro alpino, una fonte di benessere per l'anima. Il passo del vento è un sillabario, che parte dalla A di Abete e finisce con la Z di Zuppa, il caldo e antico ristoro di ogni buon camminatore. E dalla A alla Z Corona e Righetto ci regalano pensieri e sensazioni in una piacevole alternanza di riflessioni e ricordi.
Le prime sono soprattutto appannaggio di Righetto che con le sue massime, sempre improntate alla vita concreta e aspra delle vette, ci invita a fermarci ad ascoltare il silenzio (un'esperienza quasi sconosciuta per chi vive giù, nella "barbara" pianura), ci accompagna nel bosco sulle tracce di piccoli animali o ad ascoltare il battere del picchio sulla dura corteccia di alberi secolari, indicandoci il nome di ogni essenza, dal larice al mugo, dall'abete al faggio, si ferma con noi ad ammirare le albe fredde e luminose che per un istante solo ammantano di un rosa scintillante tutte le vette... appena prima che il sole, sbucando dalla montagna, allaghi di luce tutto ciò che incontra. Ci invita a prestare attenzione al muoversi del sottobosco, al suono dei campanacci delle vacche, che rimanda ad antichi riti propiziatori. Ci prende per mano per aiutarci a capire il lato magico della montagna, il suo valore simbolico. Come quando ci racconta il suo primo incontro, da bambino, con un capriolo:
«Ci guardammo per pochi secondi, che mi parvero minuti. Io e lui. Noi due. Ebbi la straniante sensazione di riconoscermi in quell'animale nonché l'impressione che i suoi occhi grandi e dolci intendessero comunicarmi qualcosa. Poi si mosse lentamente e con quattro ampi balzi scomparve nel bosco. Quando sparì per sempre, pensai che non l'avrei mai più rivisto, e il folto di quella foresta mi parve un mondo oscuro e magico, dove andavano a nascondersi tutti i misteri del mondo. (...) Col passare degli anni ho ripensato spesso a quell'episodio portentoso, e ogni volta mi sono detto che è stato il momento esatto in cui io sono diventato uno scrittore. (p. 39)
Di Mauro Corona invece sono i ricordi, i racconti. Sapidi, curiosi, vivaci, spesso rustici, nel suo stile. Di scrittura e di vita. E qui torna il Corona tanto amato dei suoi romanzi precedenti. Si affacciano dalle pagine personaggi che i suoi affezionati lettori (un pubblico ormai fedelissimo) conoscono da anni: il padre silenzioso e roccioso, i fratelli (Richeto e Felice che sarebbe morto a 17 anni lontano dalle sue montagne), Celio, l'amico di una vita, forte "rampicatore", ma anche Manolo (lo scalatore Maurizio Zanolla) o lo scrittore Mario Rigoni Stern, grande vecchio che riuscì a tornare dall'inferno della guerra per leccarsi le ferite sulle sue amate montagne.
In un'alternanza di voci che sembra riecheggiare i discorsi, mai urlati, di due amici che stanno percorrendo, a passi lenti e misurati, un sentiero alpino verso la vetta. Mentre il lettore li segue, zaino in spalla e occhi attenti a dove mette i piedi.
Un'alternanza che diventa anche letteraria, rispecchiandosi negli stili di scrittura di entrambi, così distinti e riconoscibili.
Questo libro esce esattamente un anno dopo l'ecatombe degli alberi, il ciclone insolito e tremendo che, con i suoi venti a 140 chilometri all'ora, il 30 ottobre del 2018 spazzò le Alpi, soprattutto in Trentino, abbattendo milioni di alberi. Gli autori parlano addirittura di 16 milioni di alberi a terra. Morti, come i ragazzi di quella guerra mondiale che tra le vette alpine, in parte, si combatté. Un evento catastrofico che ha lasciato senza parole gli abitanti della montagna, tutti quelli che la amano, la conoscono, la frequentano, che ha lasciato senza musica gli strumenti (quanti gli abeti di Paneveggio inutilizzabili, la mitica "foresta dei violini" dove pare che anche Antonio Stradivari si recasse a battere con le nocche le cortecce per individuare gli abeti sonanti).
Un libro che è sì un canto di dolore, ma anche e soprattutto di speranza, uno sguardo sul futuro per far sì che la montagna rimanga quello che è, quello che rappresenta: un luogo atavico, magico, primitivo, in grado di regalare sensazioni primigenie. Non un parco giochi.
Rosatea Poli
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