Vera
di Elizabeth von Arnim
Fazi, 2019
Traduzione di Sabina Terziani
pp. 296
€ 15,00 (cartaceo)
€ 7,99 (ebook)
Lucy scoprì che il matrimonio era diverso da come l’aveva immaginato. Anche Everard era diverso. Tutto era diverso.Io non so se Daphne du Maurier abbia tratto ispirazione da Elizabeth von Arnim per la scrittura del suo Rebecca (pubblicato in italiano con il titolo Rebecca, la prima moglie). I due romanzi sono separati da diciassette anni e da atmosfere psicologiche e ambientali totalmente diverse. Se, infatti, Alfred Hitchcock trarrà il suo Rebecca, la prima moglie (celebre pellicola del 1940 vincitrice di due premi Oscar tra cui quello di miglior film) dal romanzo di du Maurier, è in Vera che l’atmosfera del thriller hitchcockiano trova un contraltare esaustivo: il romanzo della von Arnim è un’indagine nei labirinti dell’amore, della violenza e della morte, seguendo il potere che gli uomini esercitano sulle donne e facendoci precipitare nell’abisso dell’infelicità insieme alla protagonista.
Inghilterra, 1920. In una località marina della Cornovaglia si incontrano Lucy Entwhistle, una ventiduenne ingenua rimasta orfana del padre col quale stava trascorrendo un breve periodo di vacanza, ed Everard Wemyss, un signore più che quarantenne la cui moglie Vera è morta, a suo dire, cadendo tragicamente da una finestra della loro residenza di campagna. Al rientro a Londra, il legame fra i due si fa sempre più intenso, proprio grazie alla condivisa esperienza di morte, a dispetto delle intenzioni della tenera zia Dot, sorella del defunto Mr. Entwhistle, mai pienamente conquistata dal viscido savoir faire del vedovo di bell’aspetto. Lucy, invece, è totalmente rapita dal fascino di Everard e arriva al punto di sposarlo solo pochi mesi dopo il loro primo incontro. Al rientro dal viaggio di nozze in Francia gli sposini si trasferiscono a The Willows, la mortifera residenza di campagna della famiglia Wemyss. Vera non c’è fisicamente, ma Lucy ne percepisce la presenza in ogni angolo della casa, pervasa dal ricordo di una donna che tutti adoravano: domestici, vicini e compaesani. Lucy, la dolce bambina di Everard, inizierà così un matrimonio a tre, sperando che con il tempo il suo amore possa superare la funesta presenza della prima moglie e, soprattutto, il rigido e violento atteggiamento del marito.
Le Sacre Scritture dicevano che nell’amore non c’è paura; anzi, l’amore perfetto caccia via la paura, ma non sapevano di cosa parlavano, perché l’amore che lei provava per Everard era perfetto e ciononostante temeva quell’uomo.
Sul mood simile a quello respirabile in Jane Eyre la storia di Lucy innesta l’esperienza biografica di Elizabeth von Arnim che scrisse Vera, infatti, dopo la disastrosa rottura col fratello maggiore del filosofo Bertrand Russell, il duca John Francis Stanley Russell il cui carattere violento e autoritario amareggiò l'esistenza della scrittrice. E se Nicola Beauman giudica Vera «il capolavoro della von Arnim» e la stessa scrittrice non nascose mai la predilezione per questo titolo tra i molti del suo corpus, il vero giudizio che mi preme ricordare è quello di Rebecca West, critica femminista che riconosce a Vera una portata ideologica estremamente importante per la creazione di una coscienza femminile. E io, che di romanzi della von Arnim ne ho letti un po’, mi sono sentita spiazzata dalla modernità con cui la von Arnim affronta il tema della dipendenza da chi crediamo di amare. I luoghi (proprio come nei migliori thriller o horror, ecco perché è così calzante il confronto con il film di Hitchcock) diventano nuclei centrali della dimensione asfittica e claustrofobica in cui si consuma la parabola discendente di una giovane donna passata dall’essere una cittadina del mondo guidata in società dalla lungimiranza paterna a Lolita ante litteram chiusa nell’orrido castello del marito manipolatore. Per Everard Lucy altri non è che la «sua bambina, la sua dolce bambina» che deve isolarsi dal mondo per assecondarlo in tutto e per tutto, per non privarlo del piacere di cui gode nel pianificare le vite altrui. Quanto fastidio si prova pagina dopo pagina assistendo impotenti alla violenza psicologica perpetuata ai danni di una giovane donna prima inconsapevole del mostro che si trova al fianco e poi, nel momento in cui realizza l’orrore, incapace di liberarsi di lui e, anzi, considerando se stessa la causa delle ire del marito.
Un copione di violenza già noto ai giorni nostri, ma se ricordiamo che Vera ha quasi cento anni, ci renderemmo facilmente conto della potente modernità dell’autrice australiana. Il romanzo sorprende, allora, per la commistione perfetta tra contenuto e forma. Il primo è la quintessenza della narrativa femminista circa il tema della violenza sulle donne. Vera è un racconto senza retorica o melodramma sulla dinamica amorosa che attraversa i tempi e le epoche e non viene mai cancellata: la violenza sulle donne tra le mura domestiche non ha una conclusione, purtroppo.
Un copione di violenza già noto ai giorni nostri, ma se ricordiamo che Vera ha quasi cento anni, ci renderemmo facilmente conto della potente modernità dell’autrice australiana. Il romanzo sorprende, allora, per la commistione perfetta tra contenuto e forma. Il primo è la quintessenza della narrativa femminista circa il tema della violenza sulle donne. Vera è un racconto senza retorica o melodramma sulla dinamica amorosa che attraversa i tempi e le epoche e non viene mai cancellata: la violenza sulle donne tra le mura domestiche non ha una conclusione, purtroppo.
Lizzie era via da neanche cinque minuti che Lucy era già passata dall’infelicità e dallo smarrimento al giustificare il comportamento di Everard; nel giro di dieci minuti ebbe ben chiare le buone ragioni per cui si era comportato in quel modo; in capo a un quarto d’ora si era addossata tutta la colpa per gran parte di ciò che era successo.
Ma la von Arnim che ha da sempre nutrito i suoi romanzi di dinamiche sociali, esce dalle claustrofobiche residenze aristocratiche (la casa di Londra e la campagnola The Wilows) in cui la storia è ambientata e approda all’esterno, arrivando a toccare chi conosce Lucy direttamente e chi lo fa indirettamente: chi tenta di far capire a Lucy che questo amore non è amore, la zia, gli amici di famiglia, la stessa Vera che la scruta dalla fotografia in salotto, ha l'effetto contrario di avvicinarla ancora di più al suo amato. Inoltre, sSembra quasi che l’autrice invii tramite Lucy un appello accorato a tutti noi, lei che in prima persona era passata attraverso le magie dei soprusi: come aiutare chi si trova in questa situazione? Perché è così difficile capire la morbosità di certe relazioni? Fino a che punto tutto è causato dall’amore? Con uno sguardo lucido e una scrittura lineare la Von Arnim fa luce sulle dinamiche matrimoniali spesso malate, in cui la donna è l'anello più debole e a cui non viene dato il tempo e la possibilità di conoscere veramente il partner, perché sopraffatta dai sentimenti irrazionali.
Perché non poteva gridare se ne aveva voglia, perché non poteva parlargli con franchezza per chiedergli aiuto a guarire dai suoi ridicoli difetti ridendoci su insieme a lui?
La seconda, la forma del testo, è una nota discriminante di questo libro rispetto agli altri romanzi della von Arnim: in Vera c’è un continuo e fluido andirivieni tra i punti di vista dei personaggi, che da un paragrafo e un altro permettono di entrare in profondità nelle ragioni ed elucubrazioni di Lucy, zia Dot, Everard e perfino delle domestiche di The Willows. Mi ha ricordato molto la modalità narrativa scelta da Marco Missiroli nel suo ultimo romanzo finalista al Premio Strega 2019, Fedeltà: pur scegliendo diegeticamente la terza persona grazie a queste immedesimazioni si è sempre nella testa dei protagonisti, con naturalezza e consistenza, in un crescendo di soffocamento e caduta verso l’oscurità realizzato dalla prima all’ultima pagina, con un finale sorprendente e cinematografico, degno di un qualunque capolavoro del regista di Psyco.
Federica Privitera