Gli
affamati e i sazi
di Timur Vermes
traduzione di Francesca Gabelli
Bompiani, 2019
pp. 511
€ 22,00 (cartaceo)
€ 14,99 (ebook)
“Non sto a parlare qui della Siria o della Giordania. Forse ci sarà anche qualcuno che ti lascerebbe passare, ma per ognuno di loro ce ne sono almeno altri tre che di sicuro non te lo permetteranno. Ammettiamo pure che lo facciano i turchi, che nessuno sa cosa voglio a parte il rispetto. Ammettiamo pure tutto. Per quel che mi riguarda, riuscirai a superare anche ostacoli trascurabili come il canale di Suez. È tutto possibile. Ma c’è una cosa che è del tutto impossibile.”
“Israele.”
“Israele.” (p. 326)
La parola tedesca “lager” non può non
far pensare subito a quei campi di concentramento in cui i nazisti tenevano
prigionieri non solo gli ebrei ma anche gli omosessuali, gli zingari, gli
oppositori politici eccetera. Non è un caso dunque che Vermes utilizzi senza
mezzi termini proprio questa parola per descrivere un accampamento nell’Africa
sub sahariana in grado di ospitare – un verbo che, rimandando a più nobili
origini, suona quasi ironico considerato il contesto – milioni di profughi e
rifugiati, uomini, donne e bambini riuniti da un’unica parola, anche questa fil rouge di tutto il romanzo: "migrante".
E cosa accadrebbe se un giorno uno
di loro – un migrante senza nome, chiamato sempre e solo “il migrante”, finché
qualcun altro non decide di affibbiargliene un altro – decidesse di organizzare un
viaggio non tramite quel mar Mediterraneo in cui in migliaia sono morti per la negligenza (indifferenza, menefreghismo; scegliete il termine che più preferite) di molti, bensì attraversando
l’Africa e, valicate le porte dal medio Oriente, giungesse fin nel cuore di una
Germania iper moderna, meta ambita da tutti? Cosa accadrebbe se con lui ci
fossero non dieci o venti compagni, bensì 150.000 – per iniziare – altri migranti,
tutti disperati quanto lui, tutti affamati e bisognosi solo di riscatto? Cosa
accadrebbe alla nostra bellissima e fragile Europa, che tante volte abbiamo
trovato sul punto di spaccarsi in due proprio a proposito di questo spinoso tema,
se la troupe televisiva del noto programma Angelo fra i poveri seguisse da vicino questa immensa carovana, impedendo
così che le atrocità commesse lontano dagli occhi – e dal cuore, come recita un
famoso detto – restino invisibili?
Ecco che allora il viaggio dei
migranti diventerebbe uno show televisivo, un reality senza fine, e al contempo
una delle più grandi minacce che si possano immaginare alla stabilità europea.
E
se la Germania è il sogno di molti, quella fiumana di gente è l’incubo di
tutti, perché il migrante che arriva di nascosto, e sempre di nascosto viene
sbattuto a spezzarsi la schiena nei campi di pomodori o sulle strade a
soddisfare le voglie dei bianchi, è ben accetto – fa girare l’economia a suo
modo, mantiene i prezzi bassi e soddisfa tutti – mentre quelli che vengono alla luce del sole devono essere accolti (se
passano via terra mica possono annegare, e di certo non puoi abbatterli davanti
agli occhi di tutti, dice qualcuno) nessuno li vuole. E poiché la Convenzione di Dublino è uno
scherzo, come si è visto tante volte – e come qualcuno afferma, con parole meno
lusinghiere, nel romanzo – allora che fare? È possibile ricorrere al buon
vecchio scaricabarile? Eppure anche questa tecnica, per quanto semplice e funzionale sia, ha il suo limite: ci sarà un momento in cui il barile non potrà più essere
scaricato, e a quel punto che fare del suo pericolosissimo carico esplosivo?
Gli
affamati e i sazi – titolo dal forte impatto emotivo, che a noi italiani
non può non ricordare il famosissimo saggio di Primo Levi I sommersi e i salvati, con quella congiunzione che nulla ha di
copulativo né tantomeno di positivo – ha un fortissimo sapore (auto)critico nei
confronti della Germania, che tuttavia si rivela anche nella letteratura un paese in grado di
fare i conti col passato senza scappare di fronte alla Storia con la S
maiuscola (i criminali hanno un nome, per dio: si chiamano nazisti!), e questo
è tanto più evidente quando, nella seconda parte del romanzo si passa da una
prospettiva psicologica a una sociologica. I numeri diventano talmente grandi
(non solo quelli dei migranti, ma anche quelli dei detrattori, degli attivisti
ecc.) che le decisioni del singolo perdono quasi di rilevanza, e non importa
quale sia il suo ruolo. Lo si vede soprattutto nelle ultime venti pagine,
quando la trama giunge al punto di climax e l'incubo prende una forma così reale che quasi si può sentire l'odore della terra, della carne, del sangue.
A quel punto – quando il viaggio è alla
fine e nulla può più essere come prima – a contare sarà solo una considerazione: in che
tipo di paese vogliamo vivere? Che tipo di umanità vogliamo essere? Quanti morti
dobbiamo portarci sulle spalle prima di dare il nostro assenso a una politica
della speranza?
Timur Vermes, dopo aver esordito con
Lui è tornato, altro testo in grado
di schiaffeggiare con prepotenza la nostra presunta empatia – termine di cui abusiamo fin troppo a mio avviso, soprattutto a leggere quel che si scrive sui social –, torna con un romanzo da incubo, in
grado di restare impresso nella memoria e che di sicuro non passa inosservato.
La domanda che resta, voltata l’ultima
pagina, è una: e se accadesse veramente?
E, soprattutto, se al centro di
tutto non ci fosse la Germania bensì l’Italia?
David Valentini
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