Corpi
di ballo
di Francesca Marzia Esposito
Mondadori, 1 ottobre 2019
pp. 216
€ 18,50 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
I patti con Satana sono allegri, non fanno avvertire la mancanza, io stessa, oggi che ne parlo, rimango accesa nella solitudine di un corpo che non si è duplicato ma che ha tentato il raddoppio nella magrezza. Del resto i malefici sono sempre ottime occasioni per vivere. (p. 7)
Ci sono testi che sono come
ossessioni: battono sempre sullo stesso punto fino a frantumare la superficie
e, una volta penetrata, scavano ancora e ancora, si inoltrano in profondità e
vanno al cuore della questione. Lì si assestano e sedimentano, si sviluppano e
crescono, dilagando poi nel corpo estraneo come una piaga.
Il romanzo di Francesca Marzia
Esposito – al suo secondo libro dopo l’esordio con Baldini & Castoldi nel
2015 con La forma
minima della felicità – è esattamente così: un’ossessione. Anche se non
sembra, e il paragone del romanzo con la piaga non aiuta di certo, questo vuole
essere un complimento. L’idea di base, che torna e ritorna nelle pagine senza
mai abbandonarle una sola volta, ma anzi ripresentandosi con più vigore proprio
là dove la trama senza prendere le distanze dalle premesse delle prime pagine,
è proprio l’ossessione.
Ma non un’ossessione generalizzata o
psicotica – sebbene su quest’ultimo punto si potrebbe dire molto – bensì quella
specifica forma di ossessione rappresentata dall’arte. L’arte, nella
fattispecie la danza, è qualcosa che destruttura la vita così come la
conosciamo – una vita fatta di routine anche fisiologiche come mangiare,
defecare, dormire – per ristrutturarla sotto un nuovo dominio, che a tratti
assume una prepotenza maggiore persino di necessità biologiche come la
sussistenza stessa.
La danza d’altronde è un particolare
tipo di arte che richiede la più totale devozione, che interviene direttamente
sul corpo della ballerina fino a renderlo uno strumento che, laddove è perfetto
in termini di tecnica, risulta quasi inadatto alla vita. Dopo tutto i corpi di
ballo a cui fa riferimento il titolo «non c’entrano niente con quelli delle
donne, non sono una variazione sul tema “femminilità”, anzi lo azzerano; i
corpi delle ballerine non confondono la grazia con l’identità sessuale,
derivano da tutt’altra cosa, sono disumani, iperarticolati, e hanno fattezze da
insetti» (p. 128). Esposito prosegue nella sua invettiva contro la danza – un’invettiva
che è al contempo odio e amore verso questa disciplina: odio e amore che si
alternano per tutte le pagine del libro, e quanto fa male leggere certi
passaggi – prosegue nella sua invettiva, dicevamo, affermando senza mezzi
termini che «L’arte stessa non esiste in natura, la danza è innaturale, l’innaturalità
regge tutto, se fosse il contrario non la seguiremmo» (ibidem).
Il senso di tutto questo discorso
può essere riassunto in un’unica domanda: quanto siamo disposti a sacrificare
per perseguire il nostro sogno artistico? Non si tratta infatti solo di tempo
libero (quelli sono gli hobby), né tantomeno di una modifica sostanziale dei
nostri ritmi di vita (quelle sono le passioni): qui si parla di un asservimento assoluto,
di uno stravolgimento radicale delle nostre abitudini e dei nostri corpi, di
una dedizione totale che coinvolge ogni nostro momento della giornata. Anita,
la protagonista del romanzo, pensa alla danza anche quando è fuori dalla sala
prove; ci pensa anche quando mangia, quando è in strada, quando dorme; sogna la
danza, respira la danza, e questo pur sapendo quanto l’arte, in questa forma,
sia tossica. L’arte è una tossina, sì, divora l’anima come farebbe un diavolo con cui si è stretto un patto: questo ci
dice Francesca Marzia Esposito, di professione insegnante di danza.
L’autrice scrive con gusto, ha uno
stile riconoscibilissimo maculato soltanto da qualche ingenuità che sono certo
negli anni vedremo scomparire («Io ero per l’estinzione, la specie umana di mia
conoscenza era intasata da brutture, da esseri mediocri, fallati, primitivi,
inutili», p. 59). Scrive con gusto, dicevamo, raramente volgare eppure diretta,
poetica eppure terragna, iper realistica ma con un tocco di surrealismo
(soprattutto verso la fine, quando l’ossessione sembra prendere il dominio su
tutto).
I suoi personaggi, quasi tutti
devoti a una forma d’arte, risultano spesso incastrati in uno scatto
fotografico, incapaci di andare oltre perché impelagati, appunto, nei loro
mondi artistici. Vediamo delle esistenze che rasentano il solipsismo, elemento
questo già presente nella Forma minima
della felicità, e non è per niente difficile empatizzare con loro. Perché loro
a volte siamo noi, imbambolati davanti a una pagina bianca che non ne vuole
sapere di riempirsi di parole, davanti a una tela intonsa che non sa farsi
dipingere, davanti a una composizione che ronza nella testa eppure all’orecchio
suona male.
Corpi
di ballo è un libro che parte in sordina – come faceva anche il precedente
dopo tutto – e piano piano scava nella pelle, filtra attraverso i muscoli, si
innesta nelle ossa. Proprio come l’ossessione di cui si diceva all’inizio,
anche questa scrittura è pervasiva.
Da leggere con calma, fermandosi di
quando in quando per metabolizzarne i passaggi più sublimi.
David Valentini
Social Network