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Proposte per il buon governo del patrimonio culturale

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Diritto e gestione del patrimonio culturale 
di Antonio Leo Tarasco 
Laterza, 2019

pp. 304
€ 24 (cartaceo)
€ 13,99 (ebook)




Il Codice dei beni culturali e del paesaggio (del 2004) definisce come patrimonio culturale l’insieme dei beni culturali e dei beni paesaggistici. I primi sono le cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico; i secondi, gli immobili e le aree costituenti espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio (Art. 2). 
È opinione comune che l’Italia – con i suoi 55 beni dichiarati patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, prima della lista insieme alla Cina – sia un Paese che potrebbe vivere di sola cultura, opinione di chi spesso sottintende che così non è perché la cultura è male amministrata. A fare il punto sulla amministrazione del patrimonio culturale italiano e a proporre nuove prassi di buon governo è arrivato da poco il volume Diritto e gestione del patrimonio culturale, di Antonio Leo Tarasco, già autore di svariati saggi sul tema e profondo conoscitore della materia, dato il suo ruolo di dirigente al Ministero per i Beni, le Attività Culturali e – da poco, di nuovo – per il Turismo. 
Scopo del volume è di “descrivere un’idea del patrimonio culturale e della sua ottimale gestione”, attraverso un’analisi degli aspetti amministrativi e contabili di tale gestione. La premessa alla base del libro è la necessità dell’attribuzione di un valore misurabile e monetizzabile ai beni culturali.
La finalità di elevazione civica e spirituale della persona umana per mezzo della promozione della cultura e, per suo tramite, del patrimonio culturale, se implica il programmato disinteresse per la finalizzazione lucrativa della gestione dei beni, non esclude, però, una gestione attenta ai profili dell’equilibrio di bilancio e, dunque, della costante riduzione delle spese e dell’incremento delle entrate. 
Insomma le imprese culturali sono imprese, ci ricorda Tarasco. Una cosa che lo Stato già sa e mette in pratica con diversi strumenti, tra tutti basti pensare al ruolo fondamentale dell’inventario e dei bilanci nella gestione delle entrate e delle spese collegate al patrimonio culturale. Ma attenzione, perché Tarasco (che nell’introduzione sottolinea la completa e unica paternità delle sue opinioni, che quindi non sono espressione del ministero per cui lavora) ci mette in guardia dal fidarci ciecamente dell’esattezza dei conti pubblici sul tema. Sostiene ad esempio che il valore dei beni culturali mobili iscritto nel Conto generale del patrimonio dello Stato è inattendibile, perché sottostimato, e porta numerosi esempi a riprova, come il fatto che alcuni beni non abbiano mai ricevuto una valutazione economica (un caso tra i tanti: la Biblioteca dei Girolamini di Napoli non rientra nel patrimonio dello Stato). Tarasco – che non si stanca mai di ripetere che la conoscenza del valore dei beni dello Stato sta alla base della loro gestione – individua poi degli strumenti concreti per incrementare la redditività del patrimonio culturale italiano, come ad esempio la promozione della pratica delle sponsorizzazioni e delle concessioni, o la creazione di una rete di vendita di prodotti derivati dai beni culturali. 
Nella seconda parte del volume, l’autore allestisce un interessante confronto tra il sistema museale italiano e quello della Francia, del Regno Unito e degli Stati Uniti. Avvalendosi di molti dati, Tarasco mostra che i musei italiani si reggono principalmente sui trasferimenti pubblici: i ricavi propri – che sono quasi esclusivamente rappresentati dalla vendita dei biglietti – sono una percentuale minoritaria. I musei stranieri, invece, si reggono su prassi di automantenimento che hanno consolidato nel tempo, come le donazioni e i fundraising, molto sviluppate ad esempio in Gran Bretagna, dove – di contro – l’accesso a molti musei statali è gratuito. 
Per Tarasco le istituzioni museali italiane dovrebbero imitare la capacità delle loro corrispettive francesi, inglesi e statunitensi di trovarsi delle risorse proprie, secondo una concezione liberalista che coniuga l’esigenza di democrazia culturale a quella di considerare la cultura come fonte di reddito. Un pensiero che è già una linea guida, almeno in teoria, dell’amministrazione dei beni culturali in Italia, e che è probabilmente la proposta più lucida per gestire i musei oggi. E che però ha anche dei grossi limiti. L’estenuante ricerca di finanziamenti non può essere (più di quanto già non lo sia) la preoccupazione attorno a cui ruota tutta l’attività dirigenziale di un museo (o di un qualsiasi altro tipo di centro pubblico di produzione culturale). Specialmente nel caso di istituti medio-piccoli, dove spesso chi si occupa della gestione culturale e chi si occupa di quella economico-contabile coincidono, e il problema della corsa alle sovvenzioni soffoca il lavoro di curatela e di ricerca, opprimendo direttori, dipendenti ed eventuali studiosi affiliati. Anche perché se i piccoli musei e istituti non sovvenzionati dallo Stato non riescono a trovare facoltosi donatori e a convincere i cittadini ad acquistare le loro membership, alla fine dell’angoscioso tunnel fatto di ridimensionamenti e licenziamenti c’è la chiusura ad attenderli. Anche questo succede oltremanica e oltreoceano purtroppo, oltre a brillanti programmi di raccolta fondi. 
L’idea del cittadino che si fa carico del bene culturale vuol dire partecipazione e attivismo, e sarebbe stupido non stimolare questa lodevole pratica. Che dovrebbe idealmente affiancare il principale sostegno della gestione e valorizzazione dei beni culturali: la finanza pubblica (che poi è anche quella a carico dei cittadini). La cultura è un affare pubblico e lo sancisce la Costituzione, che promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca, tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione (art. 9). Ricordarlo non vuol dire negare scioccamente che la cultura porti reddito e che le aziende culturali debbano comportarsi come delle aziende, e quindi produrre profitto mantenendo i costi. La questione è complessa, e il libro di Tarasco offre uno stimolante contributo al tema. Nonostante il folto e preciso apparato di giurisprudenza che sostiene le ragioni del libro, e che ne fa un validissimo manuale per i corsi universitari, il volume è una lettura agevole anche per i non esperti del settore, e un’introduzione completa per chiunque voglia confrontarsi con l’argomento per la prima volta.


Serena Alessi
@serealessi