Edward Hopper.
Pittore del silenzio
illustrazioni di Giovanni Scarduelli
testi di Sergio Rossi
Centauria, 2019
pp. 128
€ 19,90 (cartaceo)
Non si considerava un pittore americano, e tantomeno un realista. Era talmente indipendente e sicuro del fatto suo che liquidava le avanguardie storiche del primo Novecento come movimenti sterili e fini a se stessi. Durante i soggiorni di formazione nella vecchia Europa la sua attenzione era per gli artisti meno alla moda: osservava con ammirazione i quadri di Marquet, Vallotton, Sickert e Courbet, ma anche le fotografie di Eugène Atget. Amava dipingere all’aria aperta, eppure le sue scene d’interni, quelle che poi lo avrebbero reso famoso in tutto il mondo, erano frutto di rielaborazioni di immagini fissate nel ricordo e ricreate in mesi e mesi di prove, avendo come modelli solo se stesso e sua moglie Jo. Nemmeno si curava, d’altra parte, di dare troppe spiegazioni su opere e metodo di lavoro, e parimenti ignorava le interpretazioni da parte della critica; la stessa che tante e tante parole ebbe a scrivere sulla sua capacità di ritrarre una nazione e un’epoca pur nella resa perfetta di un’inconfondibile sospensione spazio-temporale, che rendeva enigmatiche le situazioni e misteriose le figure in scena. Si fa fatica a credere che questo sia l’identikit di Edward Hopper (1882-1967), soprattutto se se si pensa a quanto un certo immaginario statunitense – quello urbano, con il suo contrappasso di disagio e alienazione – sia legato ai suoi dipinti. Eppure è proprio così. Oltre gli stereotipi che ne hanno ridotto la maniera a poche formule di facile memorizzazione, e sebbene sia tra i più famosi e rappresentativi artisti del Novecento a stelle e a strisce, Hopper ha ancora molto da rivelare, e una bella biografia illustrata appena pubblicata da Centauria – Pittore del silenzio, esito della collaborazione di Sergio Rossi e Giovanni Scarduelli – è il libro giusto per comprenderne il perché.
Pittore del silenzio
illustrazioni di Giovanni Scarduelli
testi di Sergio Rossi
Centauria, 2019
pp. 128
€ 19,90 (cartaceo)
Non si considerava un pittore americano, e tantomeno un realista. Era talmente indipendente e sicuro del fatto suo che liquidava le avanguardie storiche del primo Novecento come movimenti sterili e fini a se stessi. Durante i soggiorni di formazione nella vecchia Europa la sua attenzione era per gli artisti meno alla moda: osservava con ammirazione i quadri di Marquet, Vallotton, Sickert e Courbet, ma anche le fotografie di Eugène Atget. Amava dipingere all’aria aperta, eppure le sue scene d’interni, quelle che poi lo avrebbero reso famoso in tutto il mondo, erano frutto di rielaborazioni di immagini fissate nel ricordo e ricreate in mesi e mesi di prove, avendo come modelli solo se stesso e sua moglie Jo. Nemmeno si curava, d’altra parte, di dare troppe spiegazioni su opere e metodo di lavoro, e parimenti ignorava le interpretazioni da parte della critica; la stessa che tante e tante parole ebbe a scrivere sulla sua capacità di ritrarre una nazione e un’epoca pur nella resa perfetta di un’inconfondibile sospensione spazio-temporale, che rendeva enigmatiche le situazioni e misteriose le figure in scena. Si fa fatica a credere che questo sia l’identikit di Edward Hopper (1882-1967), soprattutto se se si pensa a quanto un certo immaginario statunitense – quello urbano, con il suo contrappasso di disagio e alienazione – sia legato ai suoi dipinti. Eppure è proprio così. Oltre gli stereotipi che ne hanno ridotto la maniera a poche formule di facile memorizzazione, e sebbene sia tra i più famosi e rappresentativi artisti del Novecento a stelle e a strisce, Hopper ha ancora molto da rivelare, e una bella biografia illustrata appena pubblicata da Centauria – Pittore del silenzio, esito della collaborazione di Sergio Rossi e Giovanni Scarduelli – è il libro giusto per comprenderne il perché.
Articolata in quattro capitoli – Tra Nyack e New York (1900-1906); Di qua e di là dall’Atlantico (1906-1910); “Sera blu” (1914); A porte chiuse: vita con Jo e il successo (1924-1965) – e un epilogo – “Quello che vorrei dipingere” (1965-1967) – la storia di Hopper viene raccontata a partire da una conversazione tra lo stesso pittore e la sua compagna di vita: anziani e praticamente sempre fuori scena, il lettore ne percepisce la presenza basandosi sui balloon azzurri e rosa che scandiscono le fasi del percorso esistenziale e artistico di lui, quasi fossero didascalie soggettive poste a commento di immagini che scorrono come in un lungo flashback. Lo scambio di battute è l’artificio retorico per rendere conto di uno stile e di un carattere, ma soprattutto per sfatare il mito del pittore in quanto esponente di spicco dell’arte statunitense (che per lui, pur conservatore, non esisteva in quanto tale, essendo la “razza” americana il risultato di una varietà di altre “razze”) e votato a un realismo rappresentativo. Avverso al credo dei pittori astratti – i quali, convinti che non fosse possibile fare ulteriori progressi nella rappresentazione della natura, cercavano di sostituirla «con una calligrafia molto più semplificata e decorativa», andando in una direzione di ricerca «senza speranza, una pittura indecifrabile e impotente che se avesse qualcosa da dire non potrebbe dirlo» – Hopper confidava in un suo ideale preciso, coincidente con la trascrizione più esatta possibile delle impressioni intime che gli suscitava l’osservazione del mondo circostante. In questo senso, le dichiarazioni di Rossi e Scarduelli contenute nella doppia Introduzione si rivelano utili per comprendere l’impostazione del loro lavoro, il quale, lungi dal porsi nel solco di un comodo stereotipo, ha voluto percorrere una linea biografica e critica che fosse il più possibile rispettosa dell’artista: così, mentre il primo può candidamente ammettere di avere finalmente compreso Hopper dopo lo studio preliminare che è stato necessario per realizzare il libro, il secondo non esita a paragonare la funzione del pittore a quella di un faro guida e di una rete di sicurezza; da ciò, per l’appunto, derivano la scelta di farne un narratore in prima persona e di citarne le esatte parole tratte da interviste e lettere, così come quella di adottare “un compromesso stilistico” per ciò che riguarda la parte visiva.
Nel dare forma e colore agli eventi che hanno scandito la vita di Hopper – una vita peraltro abbastanza tranquilla, priva di eccessi e stravaganze, con l’unica eccezione del suo menage coniugale – Scarduelli ha privilegiato una scansione delle pagine molto regolare, con una prevalenza di bipartizioni o tripartizioni delle tavole in senso orizzontale; in più, oltre a utilizzare anche il pennello come nuovo strumento di lavoro, ha fatto in modo che la cifra hopperiana fosse sempre riconoscibile nella gamma cromatica. Ciò che più colpisce nel flusso visivo, tuttavia, è la frequenza di citazioni e omaggi, non tanto e non solo nei confronti del protagonista, quanto in relazione all’arte dei suoi coevi colleghi americani e degli artisti europei conosciuti attraverso le opere nel corso dei soggiorni di studio e formazione in Francia e in Inghilterra; quasi un tentativo di mettere in evidenza quel sistema di coesistenze, contrasti e confluenze che determinarono la maniera hopperiana, indirizzando il pittore verso un’autonomia di tratto e di cromie come anche di significati. Così facendo l’illustratore dà prova di una grande versatilità, pur non limitandosi all’esercizio di stile o all’offerta di un campionario “d’arte varia” tout court: lo dimostrano il taglio sofisticato delle inquadrature, l’insistenza sui dettagli e l’assenza di veri e propri raccordi tra le immagini (fatta eccezione per quelli sonori del dialogo, che continua come in una lunga e riepilogativa chiacchierata tra il vecchio Edward e la vecchia Jo).
Pittore del silenzio è uno di quei libri capaci di rivelare molte cose facendo dell’essenzialità una risorsa espressiva: in poco più di un centinaio di tavole illustrate, e con la guida di una conversazione ininterrotta fatta di battute brevi ma efficaci, la figura di Hopper viene liberata dai principali pregiudizi e luoghi comuni che ancora ne condizionano la percezione. Giovanni Scarduelli e Sergio Rossi sono stati bravi nel concepire il lavoro a quattro mani come se fosse l’occasione giusta per l’epifania di una verità più esatta, che si disvela sia in immagini sia in parole precise, inequivocabili. Anche la chiusura, con la piccola appendice dedicata a undici Personaggi cruciali tra pittori e fotografi con cui Hopper ebbe a che fare o che ne influenzarono in qualche modo il lavoro, è un ulteriore attestato biografico che rimanda a una rete di rapporti e corrispondenze importanti. Le ultime suggestive pagine di questa graphic biography, invece, con la scena che progressivamente si svuota della presenza umana – ovvero quella del pittore e della moglie – sono un invito a riflettere sul desiderio hopperiano di voler dipingere “la luce del sole sulla parete di una casa”: una tela nera a cui i coniugi voltano le spalle, una finestra aperta che rimanda alla definizione della pittura secondo Leon Battista Alberti e lo scorcio di un interno domestico inondato di sole sono la metafora perfetta di un ciclo esistenziale che sta per concludersi, e che si è compiuto nella convinta osservanza di una regola discreta, autonoma, lontana dal rumore di fondo di un sistema dell’arte sempre troppo smanioso di etichette e definizioni.
Cecilia Mariani
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