di Fabrizio Pasanisi
Giulio Perrone Editore, 24 ottobre 2019
pp. 204
€ 15,00 (cartaceo)
Edito da Giulio Perrone, A Dublino con James Joyce di Fabrizio Pasanisi è un'opera che rivela sin dal titolo le intenzioni narrative: raccontare, attraverso un percorso immersivo nella vita dell'artista e dell'uomo James Joyce, la Dublino a cavallo tra Ottocento e Novecento.
Fabrizio Pasanisi, giornalista e scrittore, vincitore del Premio Bagutta e grande studioso di Joyce e Yeats, realizza una narrazione suddivisa in due macrosezioni: la biografia di James Joyce, i momenti salienti come gli anni al collegio gesuita e l'incontro con Nora; lo studio delle opere e di come esse raccontano la città natale (e i concittadini) del celebre artista.
Sebbene dal titolo sembrerebbe predominante il secondo filone, in realtà quello che A Dublino con James Joyce regala al lettore è un piccolo saggio di scoperta non solo dei luoghi delle opere dello scrittore, ma anche della sua vita, del suo carattere, della vitalità artistica che lo rese grande.
Se è vero che prima di James Joyce Dublino era semisconosciuta ai più, è altrettanto vero che quella che incontriamo è una città vista attraverso una lente di ingrandimento soggettiva (quella dell'artista) che, attraverso l'arte letteraria, diventa oggettivante. Si mostra allora al mondo il ritratto di una città amata-odiata dallo scrittore che qui visse "solo" i suoi primi vent'anni, ma che le rimase legato per sempre, rendendola sfondo e protagonista di ogni sua opera, con l'amore e il disprezzo che sempre si riserva al ventre terreno che ci ha fatto da culla e da rifugio infantile:
Sebbene dal titolo sembrerebbe predominante il secondo filone, in realtà quello che A Dublino con James Joyce regala al lettore è un piccolo saggio di scoperta non solo dei luoghi delle opere dello scrittore, ma anche della sua vita, del suo carattere, della vitalità artistica che lo rese grande.
Se è vero che prima di James Joyce Dublino era semisconosciuta ai più, è altrettanto vero che quella che incontriamo è una città vista attraverso una lente di ingrandimento soggettiva (quella dell'artista) che, attraverso l'arte letteraria, diventa oggettivante. Si mostra allora al mondo il ritratto di una città amata-odiata dallo scrittore che qui visse "solo" i suoi primi vent'anni, ma che le rimase legato per sempre, rendendola sfondo e protagonista di ogni sua opera, con l'amore e il disprezzo che sempre si riserva al ventre terreno che ci ha fatto da culla e da rifugio infantile:
L’Irlanda è un gran paese. Si chiama l’Isola di Smeraldo. Il governo metropolitano, in tanti secoli che la jugula, l’ha ridotta sulle cinghie. Ora è un campo di spine. Ci ha seminato fame, sifilide, superstizione, alcolismo. Ne sono germogliati puritani, gesuiti e bigotti. (p. 72)
Dublino è, come sono sempre le capitali dei Paesi a lungo dominati da invasori stranieri, una città composita, dove si mescolano identità politiche e sociali profondamente diverse, ma anche di grande fermento culturale e dove incontrare un vero e proprio caleidoscopio umano, che ispira in Joyce, come ben sottolineato da Pasanisi, l'espediente letterario dell'"epifania":
Joyce ritraeva piccoli momenti, quasi fotografie colte dal proprio vissuto e trasferite sulla carta. Si tratta di scenette circoscritte, in buona parte contestualizzabili perché avvengono in un punto preciso di Dublino, a volte una strada, altre dentro una casa. Joyce coglieva l’attimo e lo regalava a sé stesso e al futuro lettore. (p. 65)
(In Ulisse, ndr) ...Joyce lavorò su una cartina di Dublino, tracciando con inchiostro rosso i percorsi di padre Conmee e di Humble, per poi inserire lungo le due linee gli altri personaggi che via via si susseguono, con le loro piccole storie. (p. 169)
Sta probabilmente nelle epifanie l'elemento di fascino delle opere di James Joyce: opere complesse, a tratti enigmatiche e (come nel caso dell'Ulisse e poi di Finnegans Wake) di difficoltosa interpretazione, che offrono però al lettore la possibilità di cogliere
un’improvvisa manifestazione spirituale, o in un discorso o in un gesto, degna di essere ricordata. (...) attimi assai delicati ed evanescenti… (p. 65)
L'epifania rappresenta anche la tecnica che mette a nudo la capacità di Joyce di raccontare un luogo, rendendolo paradigmatico e simbolico, e al contempo l'individuo, le sue debolezze, brutture, quotidiane abiezioni.
L'incontro tra dimensione spaziale e umana è al centro della prima grande opera dello scrittore Dubliners (Gente di Dublino, nella traduzione italiana):
L'incontro tra dimensione spaziale e umana è al centro della prima grande opera dello scrittore Dubliners (Gente di Dublino, nella traduzione italiana):
...in Dubliners la città era protagonista, lo scrittore si serviva della propria esperienza per descrivere quell’umanità che ben conosceva e inserirla nel paesaggio urbano, così come avverrà in Ulisse. (p. 122)
Pasanisi rivela un dettaglio importante: con il passare del tempo, cambia (con naturalezza e spontaneità) anche il modo di raccontare la città. In Dubliners, opera centrale che segna la chiave di volta della maturità artistica dello scrittore, Dublino è (come abbiamo visto) per la prima volta protagonista, insieme ai suoi abitanti, della narrazione; nella precedente Ritratto dell'artista da giovane:
...la narrazione ruota intorno all’Io dell’autore, egli scruta l’artista che è in sé lasciando il resto, la stessa Dublino, di contorno, come un semplice palcoscenico. (p. 165)
In Ulisse,
(Dublino, ndr) non è la stessa delle precedenti opere. La penna di Joyce era stata guidata, un tempo, dalla rabbia e dal rancore, la città si era rispecchiata nell’immobilismo del giovane scrittore che aveva raccontato un mondo grigio e senza futuro, dal quale era necessario evadere. (...) Dublino si illumina, nel bene e nel male, l’antico rancore viene messo alle spalle, (...) i vari personaggi assumono contorni da commedia, lasciando l’aria opprimente in cui ci eravamo immersi sin dal primo racconto di Dubliners. (p. 144-145)
Accanto al ritratto (e all'uso letterario) di una città, lo studio di Pasanisi approfondisce anche il secondo aspetto fondamentale di ogni opera di James Joyce: l'autobiografismo. Se rappresenta una verità difficilmente confutabile che uno scrittore non debba mai scrivere di cose che non sa, l'arte di Joyce fa di questa verità un manifesto letterario: non solo egli non si allontanerà dalle vie e dai quartieri che hanno colorato la sua infanzia, ma non trascurerà mai di collegare ogni episodio raccontato a un fatto, una persona, un'abitudine a lui familiare.
Protagonista assoluta delle sue opere è poi Nora, la donna amata, la Beatrice dantesca che diviene femmina terrena, compagna e madre, ma anche amante e musa:
Nora è la Molly di Ulisse, è l’Anna Livia Plurabelle di Finnegans Wake, è la donna ideale ed è tutte le donne, grande madre, persona semplice, generatrice di vita e di piacere, è l’artefice del più grande Sì della storia della letteratura. (p. 43)
Accanto all'alter ego di Nora, c'è spesso anche il ritratto dell'artista; così è nell'opera omonima, e così torna a essere nell'Ulisse:
Dopo la colazione, dopo aver servito anche Molly, c’è allora il tempo per assistere alle funzioni corporali di Bloom: si chiude in bagno con un giornale che gli servirà per la lettura e da carta igienica. Dobbiamo sapere tutto di lui, come si comporta, cosa pensa, Joyce mette a nudo questo singolare personaggio, per metà ebreo e per metà cristiano, perennemente in esilio da tutto, dalla famiglia, dal proprio Paese. Come Ulisse, come l’ebreo errante, non è di casa in nessun luogo, tanto che uscendo si dimentica di prendere le chiavi. (p. 152)
Al lettore sconosciuto, però, nessuno di questi personaggi, e dei numerosissimi altri che popolano le opere di Joyce, parla direttamente di qualcuno: è impossibile rintracciare una dichiarazione esplicita di identità; ogni personaggio racconta, piuttosto, un ideale umano, che parla dell'uomo e quindi fa da specchio. Questa è, di fatto, l'idea di letteratura di Joyce:
No, la letteratura non serve sempre a rassicurare, a distrarre, o almeno non serve solo per questo. La letteratura può diventare enciclopedia, dove ogni sapere si mischia, e può diventare specchio in cui ognuno può ritrovarsi. (p. 143)
...Un'enciclopedia che giunge al culmine di una metaletteratura in Finnegans Wake:
Come nota Umberto Eco [ALP XI], stavolta Joyce ha spostato decisamente il baricentro della narrazione: non è più puntato sull’autobiografismo; non è più incentrato su Dublino. Il principale fatto caratterizzante del libro è piuttosto il linguaggio, l’invenzione linguistica. (p. 192)
Attraverso questo superamento, ci dice Pasanisi, Joyce porta a compimento la sua idea di arte e ricompone i due filoni caratterizzanti della sua opera (l'autobiografismo e Dublino) rendendoli due facce della stessa medaglia:
Joyce racconta Dublino come nessun altro aveva fatto fino ad allora, e chiunque, in futuro, si sarebbe dovuto confrontare con lui e con le sue pagine per scoprire la vera anima della città. Ma fa altro, molto altro. Come Swift, come Gogol’, racconta l’uomo. (p. 200)
Barbara Merendoni
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