L’usignolo
di Hans C. Andersen
Elliot, 2019
Illustrato da Mary J. Newill
pp. 45
€ 5,00
Titolo originale: Nattergalen
Traduzione di Ilaria Tesei
Pubblicato da Elliot nella inedita versione illustrata di Mary J. Newill, risalente al 1898, L'usignolo di Hans C. Andersen ha il nitore ineludibile delle fiabe e, grazie ad esso, riesce a parlare al presente, incoraggiando collegamenti impensati. Quando l'Imperatore della Cina scopre che, di tutte le sue meraviglie, la più rinomata è il canto di un usignolo che si nasconde tra le fronde del suo immenso giardino, desidera immediatamente averlo per sé. Manda allora a cercarlo i suoi sudditi più devoti: nessuno di loro, però, né il Cavaliere, né il Cappellano, né i paggi reali sono in grado di individuarlo.
La corte vive la sua esistenza fragile e dorata, totalmente avulsa dalla realtà, così i cercatori possono scambiare l'usignolo per una mucca ("Eccolo! Quanta potenza in un animale tanto piccolo!") o per una rana ("Grandioso! Ora che lo sento sembrano tante piccole campane sacre!", p. 17). Solo la sguattera, o in seguito il pescatore, le persone più umili, sono in grado di intuire la verità, riconoscere la bellezza. Solo chi apprezza la meraviglia del canto, chi valorizza la sua libertà, le sue infinite sfaccettature, può fruirne davvero, trarne un arricchimento personale. Non certo l'Imperatore, che prova a metterlo in gabbia, e poi a sostituirlo con un congegno meccanico.
Per la mentalità razionalistica incarnata dal sovrano e dai suoi cortigiani, la bellezza è solo ciò che si può definire, che può essere inquadrato all'interno delle rigide geometrie della vita di palazzo, che le illustrazioni minuziose di Mary J. Newill riescono splendidamente a restituire. Eppure non basta un "bel canto" per equiparare il genio creativo, lo slancio verso l'infinito che solo l'arte sciolta dai vincoli può consentire. E ancora, per tentare un aggancio ancor più ardito col nostro presente, il meccanismo perfetto (la perfetta tecnologia) potrà forse avvicinarsi all'originale – se non superarlo in precisione, creerà nell'uomo dipendenza grazie alla sua capacità di replicare all'infinito ciò che prima era unico, ma non riuscirà mai a superare i limiti della sua materialità, della sua artificiosità. Resterà immancabilmente finto, anche se la massa degli astanti smetterà presto di accorgersene, e si accontenterà di chi prova a convincerla che sia il meglio a cui si possa ambire ("Il Maestro di musica tenne un discorso infarcito di paroloni per dire che tutto era come prima, e così tutto fu come prima", p. 34).
C'è però qualcosa che sfugge a ogni tentativo di irreggimentazione, di incasellamento: si vede bene nelle tavole che accompagnano la narrazione. Ai profili rigorosi delle architetture, si contrappone lo slancio liberty degli elementi naturali, che spezzano le linee rette con infiorescenze, grovigli di rami, ninfee e roseti rigogliosi. In questa natura fiorita, dirompente, trova il suo spazio ideale l'usignolo, che è disposto a concedersi con generosità, a mettersi a servizio, purché si tratti di una sua scelta, purché non preveda sbarre d'oro, o nastri di seta che avvincono.
La morale della fiaba emerge sul finale: la bellezza, il talento liberato e liberatore, riescono a domare persino la morte, ad aprire uno spiraglio veritiero sul mondo, anche per chi ha avuto per lungo tempo gli occhi bendati:
Io non posso farmi il nido nel palazzo né viverci, ma permettimi di tornare quando ne sentirò il desiderio, e ogni sera mi poserò su quel ramo vicino alla finestra e canterò per te, per portarti gioia e farti riflettere. Ti canterò di chi è felice e di chi soffre. Ti canterò del bene e del male intorno a te che rimane nascosto al tuo sguardo. (p. 44)
Il volumetto di Elliot si configura quindi come un piccolo gioiello, nel rivelarci che solo questo sguardo rinnovato sulla realtà può costituire l'inizio di una vita veramente nuova – può salvare da una morte più spaventosa di quella del corpo.
Carolina Pernigo
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