di Piero Trellini
Mondadori, 2019
pp. 607
€ 20
(cartaceo)
€ 10,99 (ebook)
€ 10,99 (ebook)
Sottotitolo: “il
romanzo di Italia-Brasile”. E credo che potremmo chiuderla qui. Perché Italia-Brasile del 5 luglio 1982,
giocata allo stadio Sarrià di Barcellona, è l’unica partita che può competere,
in mito ed evocazione, con l’altra non a caso definita del secolo: Italia-Germania 4-3. Ancora un mondiale, quella volta
in Messico, 1970. Due vittorie della nostra nazionale accomunate da una
premessa: sull’Italia nessuno avrebbe scommesso un soldo di cacio.
E invece
Italia-Brasile è l’emblema di ciò che un popolo di scarse virtù riesce a tirare
fuori quando è dato per spacciato, quando è sull’orlo del baratro, quando
sembra finita per davvero. Italia-Brasile
è il Piave e Vittorio Veneto, il boom economico e la ricostruzione, se
vogliamo farla meno enfatica è la fantasia che ci ha permesso di tirare fuori
dal cilindro i governi “balneari”, quelli della “non sfiducia”, roba che gli
stranieri ci guardavano allibiti. E ammirati. Ma come: sembrava che in Italia
non rimanesse altro che sciogliere le Camere e invece… Siamo così: con noi,
veramente, mai dire mai. Soprattutto quando le difficoltà paiono
insormontabili.
In
Italia-Brasile c’è una storia nella storia. Quella di Paolo Rossi che da fantasma
in campo rinasce come un principe da un rospo. E da quel giorno sarà per sempre
Pablito. Tre gol al Brasile
stra-favorito, uno squadrone di fuoriclasse quando noi, solo 10 giorni
prima, faticavamo a stare in piedi con il Camerun.
Ma grazie a
questo libro di storie se ne apprezzano tante: Enzo Bearzot, l’allenatore
dell’Italia che poi diventerà campione del mondo, un friulano cocciuto amante
dei classici greci e latini. Dino Zoff, il portiere considerato un relitto
degli anni Settanta e che a 40 anni suonati alzò la coppa da capitano. I
giocatori del Brasile costretti a fare i conti con una delle più feroci
dittature sudamericane e finalmente a confronto con i primi spiragli di
democrazia. Grazie anche a una squadra di calcio: il Corinthians
di San Paolo. La sponsorizzazione, e dunque il calcio moderno, i soldi che
vincono sul sentimento. Con l’Adidas apripista. Uomini a fare da tramite fra il
dio denaro e i vertici delle federazioni calcistiche. L’arbitro di quella
partita: l’israeliano Abraham Klein.
I giornalisti italiani al seguito, su tutti l’immenso Gianni Brera, fiasco
facile e penna da fuoriclasse. Scrittori del calibro di Mario Soldati e Mario
Vargas Llosa. E quel ragazzino brasiliano in lacrime: la sua foto farà il giro
del pianeta e diventerà il simbolo della caduta di una squadra che pareva
invincibile.
Poi c’è la Storia. L’Italia sta vivendo il suo primo
governo non democristiano della Repubblica. Lo presiede un
giornalista-scrittore e professore universitario, dalla fama di specchiata
onestà e rigore intellettuale: Giovanni
Spadolini. Sembra un miracolo. Quel governo prende di petto lo scandalo
della P2, presente nel libro come non ti aspetti. La Storia ritorna ai mondiali
di 4 anni prima, quelli di Videla che riduceva il suo popolo a un esercito di
fantasmi desaparecidos, mentre la rete si gonfiava di turno in turno regalando
il titolo, inevitabilmente, all’Argentina. Sempre restando a quelle latitudini,
ecco che si profilano le Falkland, due scogli in mezzo all’Atlantico che per
poco non mandano all’aria il mondiale di calcio spagnolo. E mai si sarebbe disputata
Italia-Brasile.
Più di 600 pagine, per due terzi leggibili da
chiunque. Le formazioni scendono in
campo che abbiamo già superato le 400, gli inni nazionali suonano a pagina
415, il fischio d’inizio sibila a 429. Sì, a questo punto la faccenda diventa
per amanti del football, per ragazzi cresciuti davanti alla Rai, come il
sottoscritto, che tra incredulità e meraviglia seguirono gli Azzurri fino alla gioia
conclusiva. Per tutta la vita, sentiremo l’eco di quel triplice grido di Nando
Martellini: “Campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo”, che
non vuole saperne di zittirsi manco fosse il Big Bang vecchio di 15 miliardi di
anni. E potremo affermare, con intollerante certezza: il mondo si divide tra
chi ha vissuto e chi non ha vissuto quell’estate del 1982.
Ma c’è anche un dopo, bel sviluppato da Trellini, a
suo ulteriore merito. Già, perché quel titolo, conquistato con un 3 a 1 alla Germania l’11 luglio
- non va dimenticato infatti che Italia-Brasile era una sorta di quarto di
finale - ci ha dato alla testa. Ha contribuito a rispolverare il tricolore,
assurto a simbolo di identità nazionale senza connotazioni fasciste, è stato
l’apripista di un autentico secondo boom economico che ha portato il made in
Italy a conquistare mercati fino a quel momento impenetrabili, è stato l’avamposto culturale di una rivoluzione
degli stati d’animo. Al bando gli anni Settanta, definitivamente, e avanti
con la spensieratezza, i supereroi, il desiderio di tuffarsi dentro a qualcosa
di positivo. Si toglieva la terra da sotto i piedi a fenomeni tragici come, ad
esempio, il terrorismo ma anche per i classici greci e latini amati da Bearzot
c’è stato sempre meno tempo.
Marco Caneschi
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