Nato a Vicenza nel 1929 e morto a Treviso nel 1986, Goffredo Parise viene troppo spesso etichettato alla luce della sua appartenenza regionale, e pertanto tenuto ai margini del canone della letteratura italiana: i libri di testo scolastici lo relegano in un angolo, spesso solo tra i contenuti digitali integrativi – non degno forse di occupare tre pagine in un volume che ne contiene centinaia. La scoperta di questo autore è dunque dell’età adulta, che del resto è quella più atta a comprenderne e apprezzarne le sfumature, la complessità.
L’ho conosciuto durante un corso universitario monografico, a lui dedicato da un docente appassionato e sapiente, ed è stato per me la folgorazione, il grande amore. Ho comprato il primo volume dei Meridiani all’alba del mio terzo anno accademico e l’ho custodito come un reperto prezioso, il cui valore era accresciuto dalla bella introduzione di Andrea Zanzotto, che di Goffredo fu buon amico e che lo celebra, senza ritrosie, come “una delle figure più singolari e geniali del Novecento italiano”. Il secondo volume è arrivato in dono per la mia laurea. Ad oggi, rimangono i libri a cui sono più affezionata, quelli che porterei con me se dovessi salvarne solo due. A distanza di tempo, torno a chiedermi cosa abbia dato questo autore alla me di allora, giovane, studentessa di lettere che si affacciava al mondo. Mi ha dato, sicuramente, la gioia di una prosa straordinaria, che sapeva essere pungente, precisa, ma anche impastata di poesia – già dal suo esordio con l’incredibile, visionario, Il ragazzo morto e le comete, e fino al suo ritorno tardivo alla meraviglia con i racconti brevi dei Sillabari. Alcune delle intuizioni, degli sprazzi creativi di queste opere, seppure in forma diversa, rimangono insuperati, non solo nei testi da me letti fino ad allora, ma anche in tutti quelli che ho potuto avvicinare in seguito: penso al ragazzo di quindici anni, con i suoi “occhi neri, lunghi e pieni di antichità”, che non può prendere congedo dal mondo e che i suoi amici più cari, Fiore e Antoine, continuano a cercare dopo la sua morte nei luoghi da lui amati; oppure ancora al senso della vita, che la voce “Famiglia” del primo Sillabario ci rivela nascosto in un goccio di latte materno che riesce a dare speranza a un uomo (solo e anonimo come tanti uomini) e, nei momenti più cupi e vuoti della sua esistenza, gli fa ricordare solo “latte, miele, fiori o erba e linfa umana”.
Un giorno, anni fa, un uomo che non aveva mai nessuno che girava per casa conobbe una famiglia di nome Tommaseo piena di genitori, figli, zii e nipoti che stavano attenti uno all’altro in una villa di campagna. […] Una sera l’uomo fu invitato da uno della grande famiglia che si chiamava Giorgio ed era sempre allegro perché aveva quattro figli e una moglie (Grazia). Nella casa c’erano molti fiori spediti da amici e parenti per la nascita dell’ultimo figlio che quella sera stava in incubatrice. Il pensiero del figlio in incubatrice (era nato di sette mesi) turbava molto l’ospite ma non turbava affatto i genitori che sorridevano sempre. […] “A me piacerebbe molto assaggiare il latte umano” disse l’uomo e il candore di questa frase stabilì tra le persone a tavola, ma soprattutto tra Giorgio, Grazia e lui, una intesa, tanto che Giorgio disse subito: “Vuole assaggiarlo?”. […] Il pranzo finì, tutti si trasferirono a casa di Grazia e Giorgio (l’uomo era ansioso), Grazia andò in camera a spremere il suo latte per il bambino e Giorgio arrivò con un cucchiaino d’argento che porse all’uomo. L’uomo lo sorbì con molta attenzione e con il cuore che batteva, sentì prima il tepore e la densità del latte e poi stando attentissimo sentì il sapore che era di latte, di miele, di margherite piccole o erba e di persona umana. Poi il latte si sciolse in bocca e tutto scomparve ma gli bastò per capire fino a che punto l’uomo era privilegiato fra tutti gli animali e quale è la sua fortuna di nascere, di allattare e di vivere. (“Famiglia”, Sillabario n. 1)
I passi che si potrebbero selezionare sono infiniti – e tutti insufficienti a rendere la sensibilità sfaccettata, l’eclettismo, il gusto letterario, ma anche i traumi, le ferite, i nodi irrisolti di un autore che non si è risparmiato in nessuna delle sue opere. Non si può però scavalcare Il prete bello senza soffermarsi almeno un poco su di esso: se Il ragazzo morto nel 1951 era stato poco amato dai lettori (anche se Neri Pozza ci aveva creduto profondamente), e sorte non migliore aveva avuto La grande vacanza (1953), con Il prete bello (1954) e il suo titolo pruriginoso Parise arriva al grande pubblico. Lo fa con un testo scomodo, eppure toccante, che tende a distrarti con un gioco di specchi dal suo significato più vero: solo il lettore attento noterà infatti il progressivo allontanamento dell’autore da quella che la copertina promette essere la linea portante della trama, ovvero la passione divorante per la bella Fedora da parte di un fascinoso sacerdote – dal nome tanto evocativo quanto dissacrante di don Vincenzo Caoduro. Il centro dell’interesse di Parise non è tanto infatti il dramma amoroso che si consuma inevitabile (poiché “Fedora, nel cortile, aveva preso il posto del sole, era l’unica cosa vera, viva, bella, luminosa, che ci capitava di vedere dopo tanti anni di malinconia”), quanto la vita delle periferie vicentine in tempo di guerra, la storia del piccolo Sergio, figlio di NN, che ha una famiglia che ricorda da vicino quella di Parise stesso e che trascorre le sue giornate a osservare il mondo insieme ai compagni della “naia”, tutti ugualmente impegnati a vivere di espedienti e a dominare la fame atavica che costituisce il loro pensiero dominante:
Non era a questo che pensavamo io e Cena [, ma] ancora, nuovamente, alla loro fame senza parole, malandata, alla fame di Liliana e degli altri rachitici della naia, alla loro fame senza pensieri, alla fame di quando non chiedevano niente, nemmeno l’elemosina per rassegnazione, alla fame di quando giocavano a scalone, quando dormivano, quando si svegliavano, quando sbadigliavano muovendo la pelle flaccida delle guance, alla fame di quando avevano fatto la prima comunione, di quando pioveva o c’era sole, o andavano a ritirare il pacco poveri e i buoni alla San Vincenzo. Non so se Cena pensasse a questo. Ma disse: “To’”, contò i soldi un’altra volta, fece gesti e grugniti e mi diede cinquanta lire. “Cinquanta lire?” “Eh!” C’era tutta la fame di sempre in quell’“eh!”. Aggiunsi la mia parte e accartocciammo il denaro per la naia.
Protagonista vera è Vicenza, bigotta, chiusa su se stessa, pettegola, che a Parise calza stretta, ma è pur sempre casa e che lui riesce a catturare con pochi tratti nella sua reale essenza:
Solo un veneto sa chiedere: ‘Don Gastone ha l’amante?’ in tono di affermazione e di rapimento insieme. Il bisbiglio, in questa curiosa regione dove stravaganti palazzi si ergono a formare una città al centro delle campagne, è antico, connaturato, raffinato dal tempo, postillato di una quantità di aggiunte non pronunciate ma che si esprimono con un doloroso giro dell’occhio, sì che la palpebra tremi e si afflosci sotto il peso di un peccato che non si vuol dire, con una piega delle sopracciglia che, lenta, si dirige verso il basso, un tremolio del labbro e del mento; nato prima dei vescovi conti che governavano la città, ma giunto alla quintessenza della mimica e del linguaggio muto grazie alla guida capace degli abati e dei parroci nei confessionali e nelle stanze da letto delle signore. Assunto così a valore di linguaggio esso, mobile, terribile e serpentino, simile a una sottile e affilata lama invisibile, taglia i panni di dosso nel punto in cui questi panni si sostengono, recide il filo di quel bottone segreto e lascia di colpo nudi i peccatori, al ludibrio, con la sola mano in luogo della foglia. […] Queste piccole città venete, dunque, senza importanza, sorte a mezza strada tra il mare e i granducati dell’interno, chiuse da campi e colline dove la nebbia bassa e di un colore stinto confonde e intorbida paesaggi e pensieri, vivono di una vita intima propria, ai margini della storia degli uomini e del Paese. Don Gastone non lo sapeva; lui era l’uomo di Milano, figlio di quella metropoli nota in provincia, attraverso i viaggiatori di commercio, come la città dove le intimità si compiono, appunto, in mezzo alla strada.
Nei Meridiani, però, trova spazio un’altra opera – questa invece quasi misconosciuta, pubblicata incompleta dopo anni trascorsi sul fondo di un cassetto e quasi contro la volontà dello stesso autore. Romanzo breve, o racconto lungo, Arsenico ci porta al cuore della narrativa, ma anche dell’inconscio parisiano. Il protagonista, Arsenio, è un uomo cinico, rancoroso e nichilista, che al tempo era stato un feto ostile, riottoso, riluttante a nascere, vero e proprio germe del male: “la realtà era dolore per Arsenio. […] O per meglio dire, scontro deflagrazione, esplosione: tra la realtà e l’idea della realtà. Che non combaciano mai, che non coincidono, non solo: ma stridono, lottano, urlando si azzuffano e combattono per la sopravvivenza, per la scelta”. Arsenio dunque non vuole venire al mondo, già percepisce la sofferenza che lo accoglierà, le incongruenze di un cosmo marcescente, eppure la sua volontà negativa si scontra con un desiderio opposto, e ugualmente forte, quello di una madre-bambina, sedotta e abbandonata, figura commovente di chi, in nome di un amore totale e gratuito, con un po’ di incoscienza affronta le malelingue e un futuro forse ingrato. È su queste parole che ci congediamo: se il testo rivela indubbiamente la mancanza di lima, la sua incompiutezza, diventa d’altro canto l’approdo perfetto dell’esplorazione delle opere di Goffredo Parise, quella dopo la quale si ha la percezione di aver davvero capito su di lui qualcosa in più.
La povera illusa madre, asina a scuola per risate omeriche e senza costrutto o ragione, asina per vitalità allegria prorompente, la povera di spirito, cioè di comprendonio, credeva, supponeva, insomma si illudeva di avere là dentro, là sotto, un dottore, un laureato […]. E si vedeva già nonna, lei che non era ancora madre. Vedeva, […] nella vergogna della luna crescente, della futura anguria d’agosto, non sancita dalle leggi, irregolare, illegittima dunque, vedeva le visioni, le pazze forsennate convenzioni della gente perbene, il figlio nascere, nell’amore sopravvenuto fin dai primi sotterfugi, fin dal primo darsi da fare del germe traffichino, nascere e apparire, bello, sano, vivo e urlante.
La puerpera ricamava i suoi punti arzigogolati da mesi, nelle camicine, nelle sottanine, nelle cuffie. Coi suoi occhi di fanciulla, celesti veramente, e onesti veramente; anzi infantili, nel mostrare l’attenzione massima, la massima dedizione a quei pezzetti di lino. Cioè ricamando come una azione parallela e subconscia, al ricamo interno che si stava costruendo da sé; o ancora meglio ricamando in organico parallelismo, come spontaneo effetto fisico di una necessità di ricami e di camicine, sottanine e cuffiette dell’altro: ricamando come allattando, come facendo, spingendo alla nascita. Senza i dubbi della non nascita, senza le prudenze, le attese, le riflessioni e le pigrizie o i vittimismi del caso. A dominare, a proteggere gli avvenimenti interni stava la volontà assoluta, totalitaria di essere, di divenire madre. […] Gli occhietti celesti e il mento e le labbra piccole gonfie e molli, col broncio dell’attenzione, dell’interesse massimo [...] mostravano la tenacia, la cocciutaggine infantile nel costruire senza ben capire (che gli edifici crollano) senza voler spiegare, senza i perché delle filosofie, ma per religiosa necessità.
Introduzione e selezione a cura di Carolina Pernigo
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