Photolux 2019
Mondi. New Worlds
Lucca, 16 novembre - 8 dicembre;
biglietto intero € 22,00;
ridotto € 19,00.
ridotto € 19,00.
©Abbas/Magnum Photo |
La spedizione a
Photolux, Biennale Internazionale di Fotografia ospitata dalla bella città di
Lucca, è sempre un avvenimento atteso, e sempre una garanzia. Quattro anni e tre
rassegne, iniziate sempre con il World
Press Photo, una raccolta degli scatti vincitori del concorso annuale
(attualmente il 62°), divisi per sezioni tematiche (dall’ambiente allo sport,
dai ritratti all’attualità). Una mostra, questa, che risulta particolarmente
adatta come esordio per l'edizione del 2019, dedicata proprio ai Mondi. New Worlds. La forza delle
immagini, valorizzata dall’ambientazione ariosa ma imponente della Chiesa di
San Cristoforo, apre infatti innumerevoli finestre sul reale, grazie a un
eccellente apparato didascalico e alla forte cifra di narratività che aiuta l’immersione
del pubblico. Per me, che mi presento ogni volta con tutto l’entusiasmo della
neofita, è rassicurante ritrovare forme consuete, concretizzate in foto di
altissimo livello che mi preparano a quella che sarà l’esperienza diffusa dei
due giorni che mi attendono. Il tema prescelto per quest’anno (dopo i
precedenti Sacro e profano – qui la
recensione – e Mediterraneo – qui la
recensione) mi trovava però sospettosa: troppo ampio e variamente declinabile,
poteva rivelarsi un boomerang, o un
calderone in cui lasciar spazio all’entropia.
© Dario Mitidieri |
Ho trovato invece una nettissima
cifra di unitarietà tra le esposizioni, un filo conduttore d’acciaio costituito
dalla storia contemporanea: i mondi sono
infatti quelli che si spalancano dopo ogni rivoluzione, dopo ogni tentativo
dell’uomo di stravolgere la propria condizione, di elevarsi a miglior stato, di
raggiungere obiettivi prima impensati. Nuovi mondi derivano dalla distruzione,
o dal rovesciamento, di mondi vecchi e ormai stantii, di situazioni
incancrenite. Le nuove realtà possono comportare un effettivo avanzamento o
rivelarsi illusioni tragiche, certo però che dopo il punto di rottura, o il
salto compiuto, è impossibile tornare indietro.
Foto di LiberaEspressione |
Riemersa da una
visita ricca di spunti, proseguo la mia esplorazione avviandomi verso il
Palazzo Ducale che, insieme all’Ex-Cavallerizza, contiene un numero cospicuo di
mostre. È tra questi due poli di attrazione che si dividono le fotografie che più
mi interessano, almeno in base a una selezione preliminare basata sulla lettura
dei materiali informativi: la raccolta di immagini di Magnum, dalla rivolta in
Ungheria del 1956 al presente, la monografica di Abbas sulla rivoluzione
iraniana, le riflessioni di Markov e Delbrouck rispettivamente sulla società
russa e quella cubana contemporanee (a Palazzo Ducale); La notte più lunga di Dario Mitidieri sulla rivolta di piazza
Tienanmen e le due serie di scatti dedicate alla Berlino divisa e alla caduta
del Muro, rispettivamente di Udo Hesse e Stéphane Duroy (alla Ex-Cavallerizza).
C’è qualcosa in comune tra tutte queste esposizioni, nessuna delle quali tradisce
le aspettative: l’intensità di immagini che riemergono da un passato ancora
prossimo e che parlano con voce tonante al nostro presente, per richiamarci
alla consapevolezza, all’attenzione. Il
bianco e nero quasi pervasivo contribuisce ad accrescere la drammaticità di
momenti storici determinanti per il contemporaneo e che pure troppo spesso si
trovano sull’orlo dell’oblio, riesumati soltanto in occasioni di ricorrenze
e celebrazioni commemorative. I fotografi si muovono in prima linea, spinti dal
desiderio cronachistico e didascalico prima che da quello di creare simboli, ma
di fatto riescono a farlo cristallizzando nel tempo attimi epici, assoluti. La
loro narrazione, pur mantenendosi ancorata al fatto storico descritto, può così
attraversare il tempo e le barriere (Udo Hesse, che abbiamo incontrato in
occasione di una visita guidata da lui tenuta nel main weekend di Photolux, le ha attraversate anche fisicamente,
come molti altri, per riportare alla luce verità poco note, nascoste dietro
ostacoli al tempo invalicabili).
In parte differenti dagli altri risultano Markov
e Delbrouck, che portano nei loro scatti una
voce giovane e originale, che contrasta, ma al tempo stesso trae slancio
dal fatto di essere inserita nella cornice classicheggiante degli affreschi di
Palazzo Ducale. Markov, in particolare, si fa portavoce di una riflessione
sulla fotografia al tempo dei nuovi media. Questo giovane artista è infatti diventato
un caso su Instagram: le sue immagini, tutte pubblicate anche sul social e
quindi rese totalmente disponibili, mantengono anche nella sede espositiva il formato
quadrato, che rimanda all’istantaneità e dona grande vividezza agli scatti,
scorci su un presente che risulta attualissimo eppure al tempo stesso surreale,
onirico. Nella serie #Draft, si avverte forte la volontà di dare dignità agli
emarginati, agli esclusi della società russa che lui immortala e condivide con
il mondo, fornendoci in questo anche un pieno accesso alla portata del suo
sguardo.
Sempre valide,
infine, sono le scelte fatte per Villa Bottini, dove anche in passato hanno
avuto luogo alcune delle monografiche più interessanti (si pensi solo a quella
di Joel-Peter Witkin del 2015). Quest’anno, il focus è su Romano Cagnoni, morto
da poco e qui debitamente celebrato. Fin dal pannello introduttivo, Cagnoni si
qualifica come un naturalista dei nostri tempi, votato al suo desiderio di
riportare all’occidente la verità del resto del mondo:
la migliore fotografia per me è un documento umano di impatto visivo. Documento nel senso che si relaziona all’esistenza. Umano perché racconta lo stato d’animo del prossimo. E tutto questo deve avere un impatto visivo che lo renda memorabile.
Romano Cagnoni, Biafra, 1968; © Romano Cagnoni |
Le sue immagini dal
Vietnam, dal sud America, dalla Romania, ci trasportano con lui in prima linea,
oltre i confini, attenti a cogliere il dettaglio insignificante in cui si possa
nascondere un senso da riportare a casa (un senso che spesso non si trova, o
quantomeno non viene reso immediatamente accessibile allo spettatore, che deve
interrogarsi personalmente senza sperare in risposte preconfezionate). Le foto
dal Biafra, poi, restano qualcosa che non si può dire. In questa raccolta di
immagini di Cagnoni si rivela il messaggio, il valore più pieno dell’edizione di quest’anno,
ma è bene non fermarsi al piano rialzato e scendere nel seminterrato.
Nelle foto di Emanuela Colombo e Andrej
Vasilenko, che ci accompagnano rispettivamente tra le periferie urbane di
Brazilka (Lituania) e Bauvais, osserviamo una
riflessione sulla città che cambia, sulle trasformazioni architettoniche come
specchio di mutamenti antropologici e sociali. Jean-Michel André indaga
invece il concetto di confine, di limite, inteso in senso sia reale che
simbolico nella sua Borders. Lo fa
accostando immagini frammentarie, senza datazione né didascalie, al fine dar
spazio allo spettatore e di proiettarlo in un'indagine interiore che lo
proietti in un oltre, un al di là:
"È molto importante per me che gli spazi che mostro siano incerti, non identificabili geograficamente, immortalati nella tensione tra sbiadimento e permanenza. [...] Desidero far precipitare la cronologia dentro quella stessa vertigine, perché lo sguardo si concentri solo sulla sottile linea tracciata tra memoria, oblio e proiezioni".
Ogni autore è presente con la sua voce, adeguatamente
messa in rilievo da un allestimento sempre puntuale, e Photolux 2019 diventa,
come nelle edizioni precedenti, un luogo
di scoperta e indagine, del mondo, ma anche di sé, attraverso le risonanze
che ogni scatto suscita in chi lo guarda. Grazie alla diffusione sul
territorio, all’integrazione col tessuto cittadino che non ci stancheremo mai
di elogiare, il Festival anche quest’anno diventa un viaggio – in questo caso
una vera e propria esplorazione alla ricerca dei nuovi mondi che promette e fa trovare.
Carolina Pernigo
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