Prada. Sfilate
di Susannah Frankel
traduzione dall’inglese di Maura Parolini e Matteo Curtoni
L’ippocampo, 2019
pp. 632
€ 49,90
Un noto film tratto da un noto libro ne ha fatto il marchio deputato a vestire addirittura “il diavolo”, c’est à dire la luciferina direttrice della rivista di moda che fa dannare donne disposte a tutto pur di essere à la page. Stiamo ovviamente parlando del romanzo di Lauren Weisberger Il diavolo veste Prada (2003) e dell’omonima trasposizione cinematografica con la regia di David Frankel (2006), in cui una Meryl Streep in stato di grazia nel ruolo di Miranda Priestly – alfa e omega di “Runaway”, versione di “Vogue America” per il grande schermo – detta legge in fatto di moda e stile di vita. Eppure proprio non ci va di mandare Prada all’inferno. Perché quella che nasce a Milano nel 1913 come azienda di pelletteria, e che nel 1979 viene ereditata da colei che tutti ormai chiamano “la signora Miuccia”, è molto più che una griffe di lusso, così come la sua domina è molto più che una stilista. Per averne la prova basta sfogliare il volume appena pubblicato in Italia dalla casa editrice L’ippocampo, che racconta il marchio e la sua filosofia aziendale ripercorrendo tutte le collezioni prèt-à-porter P/E e A/I dal 1988 a oggi: le oltre 1300 fotografie scattate durante le sfilate e i sapienti testi di Susannah Frankel danno vita a un lavoro monumentale di immagini e parole che è soprattutto un omaggio al genio di una donna e alla sua capacità di innestare sull’albero di famiglia le gemme della filosofia, della letteratura, dell’arte e dell’architettura, in un processo di ricerca e contaminazione che contempla all’occorrenza anche il cosiddetto “brutto”.
di Susannah Frankel
traduzione dall’inglese di Maura Parolini e Matteo Curtoni
L’ippocampo, 2019
pp. 632
€ 49,90
Un noto film tratto da un noto libro ne ha fatto il marchio deputato a vestire addirittura “il diavolo”, c’est à dire la luciferina direttrice della rivista di moda che fa dannare donne disposte a tutto pur di essere à la page. Stiamo ovviamente parlando del romanzo di Lauren Weisberger Il diavolo veste Prada (2003) e dell’omonima trasposizione cinematografica con la regia di David Frankel (2006), in cui una Meryl Streep in stato di grazia nel ruolo di Miranda Priestly – alfa e omega di “Runaway”, versione di “Vogue America” per il grande schermo – detta legge in fatto di moda e stile di vita. Eppure proprio non ci va di mandare Prada all’inferno. Perché quella che nasce a Milano nel 1913 come azienda di pelletteria, e che nel 1979 viene ereditata da colei che tutti ormai chiamano “la signora Miuccia”, è molto più che una griffe di lusso, così come la sua domina è molto più che una stilista. Per averne la prova basta sfogliare il volume appena pubblicato in Italia dalla casa editrice L’ippocampo, che racconta il marchio e la sua filosofia aziendale ripercorrendo tutte le collezioni prèt-à-porter P/E e A/I dal 1988 a oggi: le oltre 1300 fotografie scattate durante le sfilate e i sapienti testi di Susannah Frankel danno vita a un lavoro monumentale di immagini e parole che è soprattutto un omaggio al genio di una donna e alla sua capacità di innestare sull’albero di famiglia le gemme della filosofia, della letteratura, dell’arte e dell’architettura, in un processo di ricerca e contaminazione che contempla all’occorrenza anche il cosiddetto “brutto”.
Se c’è una ragione per cui Prada piace anche a chi non segue la moda e le mode, è perché Prada non significa solo vestiti e accessori: Prada piace a chi legge, a chi progetta, a chi crea, a chi va al cinema e a teatro. Piace, insomma, a chi si rispecchia nell’atteggiamento curioso e aperto della sua dama di riferimento, che, oltre a essere la migliore testimonial di se stessa, nel 1993, insieme con il marito Patrizio Bertelli, ha dato vita alla Fondazione Prada: aperta al pubblico dal 2015 e con Germano Celant nel ruolo di sovrintendente artistico e scientifico, con i suoi sette edifici milanesi e le sedi di Venezia e Shanghai, è diventata in poco tempo uno dei punti di riferimento per la ricerca contemporanea a livello italiano e internazionale. Consapevole dei propri privilegi di nascita, curiosa e colta – tra le altre cose si è laureata in Scienze Politiche alla Statale di Milano nel 1970, e per cinque anni ha anche studiato mimo al Piccolo Teatro sotto la guida del maestro Giorgio Strehler – Miuccia dichiara di essere “ossessionata dall’ossessione” (nel senso che è sempre ossessionata da qualcosa), mentre “impressionista” è l’aggettivo con cui Fabio Zambernardi, che dal 2002 è Design Director della maison, definisce il suo metodo di lavoro. Amante dei contrasti e delle contraddizioni, “la signora” non ha mai firmato una collezione che potesse in qualche modo coccolare, rassicurare, compiacere il suo pubblico. E per quanto non siano affatto rari i casi in cui a fine sfilata le vengono tributate standing ovation con svariati minuti di applausi, il suo intento non ha mai coinciso con la ricerca di un consenso che si traducesse in record di prenotazioni e di vendite. Affascinata dal potere delle idee e della conoscenza, e dunque promotrice di una sensualità intellettuale, ha vestito e calzato donne forti, che avessero una personalità e una storia: la sua riflessione sulle molteplici forme di femminilità, e dunque sul femminismo e sulla storia delle donne – non va dimenticato che durante la seconda ondata femminista è stata anche Membro dell’Unione Donne Italiane e attivista per i diritti “rosa” – si è evoluta nel tempo, riflettendosi in collezioni che di anno in anno ne hanno testimoniato la vivacità di pensiero e il desiderio di non fare mai il verso a se stessa.
Suddivise per annata e per stagione, tutte le collezioni vengono raccontate attraverso una cernita di scatti delle uscite in passerella e con un breve testo esplicativo che ne ricorda ispirazione, intenzione, tagli e materiali, non mancando di riportare recensioni e dichiarazioni tratte direttamente dalla stampa coeva e di fornire dettagli sui rispettivi show (scenografia e colonna sonora ma anche cocktail e canapè, che spesso e volentieri rivelano qualcosa delle sfilate). E se è vero che le modelle vanno sempre di fretta, il consiglio è di sfogliare queste pagine con tutta la calma possibile, pena l’impressione di assistere a un balletto meccanico in più quadri di cui si stenta a comprendere la coerenza e la comune “maternità” coreografica: sorpresa, spiazzamento e deviazione sono difatti le parole chiave del vocabolario di Miuccia e della sua maison, e per apprezzare al meglio i salti concettuali e culturali che portano da una collezione all’altra conviene predisporsi in uno stato mentale di scoperta e di apprendimento. Elegante senza essere austera, ricca di riferimenti stratificati e complessi, la donna di Prada è stata definita di volta in volta minimalista (specie negli anni Novanta), ugly chic (per l’assenza di compiacimento lezioso e sensuale), sincere chic (parola di Miuccia in persona, cresciuta senza possibilità di frivolezze) e sperimentale (per via dell’uso inedito dei materiali – tra cui il nylon del celebre zainetto – e del loro accostamento: plastica e seta preziosa, broccato e cotone grezzo, e così via). In quello che tutti riconoscono come uno stile haute bourgeoisie aggiornato e ispirato al grande Yves Saint Laurent (modello esplicitamente citato dalla stilista), alcune costanti ritornano di collezione in collezione a confermare la matrice: ecco dunque la passione per gli abiti per l’infanzia e per le uniformi, ecco le gonne e la calze al ginocchio, lo spolverino, le pieghe a coltello o separate, le linee dritte o ad A, le scarpe pesanti, basse oppure orgogliosamente scomode, gli accostamenti cromatici azzardati, le citazioni anni Cinquanta che sanno di cinema noir o di neorealismo italiano
Importante nel formato e nel prezzo, Prada. Sfilate è, con tutta evidenza, un volume in più, pronto a finire nella wishlist degli addetti ai lavori e degli appassionati di settore: perché è documento, archivio, testimonianza visiva e cartacea, e perché restituisce il piacere concreto di sfogliare gli scatti di trent’anni di catwalk con la trepidazione che una volta si aveva all’uscita in edicola delle riviste più prestigiose. Il volume L’ippocampo ha corpo, peso (ben 2,5 kg) e, last but not least, una copertina rigida e telata di un colore a dir poco “parlante”, che ai lettori più accorti avrà ricordato una celeberrima arringa:
«Oh, ma certo, ho capito: tu pensi che questo non abbia niente a che vedere con te. Tu apri il tuo armadio e scegli, non lo so, quel maglioncino azzurro infeltrito, per esempio, perché vuoi gridare al mondo che ti prendi troppo sul serio per curarti di cosa ti metti addosso. Ma quello che non sai è che quel maglioncino non è semplicemente azzurro, non è turchese, non è lapis, è effettivamente ceruleo, e sei anche allegramente inconsapevole del fatto che nel 2002 Oscar de la Renta ha realizzato una collezione di gonne cerulee e poi è stato Yves Saint Laurent, se non sbaglio, a proporre delle giacche militari color ceruleo. E poi il ceruleo è rapidamente comparso nelle collezioni di otto diversi stilisti. Dopodiché è arrivato a poco a poco nei grandi magazzini e alla fine si è infiltrato in qualche tragico angolo casual, dove tu evidentemente l'hai pescato nel cesto delle occasioni. Tuttavia quell'azzurro rappresenta milioni di dollari e innumerevoli posti di lavoro, e siamo al limite del comico quando penso che tu sia convinta di aver fatto una scelta fuori dalle proposte della moda. Quindi in effetti indossi un golfino che è stato selezionato per te dalle persone qui presenti, in mezzo a una pila di roba».
Quale migliore chiusa delle parole che l’algida Miranda Priestly rivolgeva alla sua ingenua assistente Andy Sachs (al secolo una Anne Hathaway colpevole, tra le altre cose, di portare una taglia 42)? Miuccia Prada, è da crederlo, le approverebbe una per una. Non per cinismo, e nemmeno per assuefazione alle regole del gioco del fashion system, ma nella consapevolezza che a ogni abito corrisponda almeno un mondo di materia e di pensiero, e che negare alla moda importanza simbolica e rappresentativa sia ormai l’atteggiamento più definitivamente demodé che esista.
Cecilia Mariani
Social Network