Il procuratore della Giudea
di Anatole France
Sellerio Editore, 1980
Traduzione di Leonardo Sciascia
pp. 48
€ 7,00 (cartaceo)
€ 4,99 (ebook)
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€ 4,99 (ebook)
Il premio più prestigioso della letteratura, il Nobel, non sempre assicura gloria imperitura al vincitore. Nei 118 anni di storia del premio, molti degli autori insigniti dell'onorificenza sono caduti nel dimenticatoio. Difficile averli letti, difficile riuscire a rintracciare le opere che, a meno che non si annidino in qualche libreria della nonna o su qualche scaffale di libri dell'usato, spesso non sono più ordinabili o in ristampa.
Un autore a cui è toccata questa sorte è il premio Nobel del 1921 attribuito “in riconoscimento della sua brillante realizzazione letteraria, caratterizzata da nobiltà di stile, profonda comprensione umana, grazia, e vero temperamento gallico”. Considerato, in vita, una figura di riferimento letteraria e ispiratore per Proust del personaggio di Bergotte, è ora essenzialmente dimenticato e le sue opere quasi del tutto scomparse. Parliamo del francese Anatole France. Nonostante la produzione sconfinata, ben poco è fruibile. Un fortunato recupero è stato fatto da Sellerio con lo smilzo volumetto Il procuratore della Giudea
«Quanto mi è dolce rivederti»; disse «anche se il rivederti mi porta a ricordare i giorni in cui ero procuratore della Giudea, nella provincia della Siria.» (p.12)
Anche Ponzio Pilato, come se non fosse sufficiente la nomea poco felice che la Storia gli ha riservato, ha rischiato l'oblio. Il procuratore della Giudea per lungo tempo ha circolato in edizioni numerate, splendidamente illustrate, certo, ma poco fruibili per il grande pubblico. Anche se arricchito dal commento di Leonardo Sciascia, questo testo ha sofferto per l'estrema brevità che l'ha portato a essere giudicato come incompiuto, un abbozzo per un romanzo che avrebbe potuto essere, oppure di scarsa profondità.
La storia gira intorno all'incontro in tarda età tra il patrizio Elio Lamia e Ponzio Pilato. I due, che si erano conosciuti negli anni della loro giovinezza quando Lamia scontava l'esilio da Roma e Pilato esercitava come procuratore in Siria, si rincontrano in tarda età e, tra una discussione sui malanni dell'età e l'altra, ricordano i tempi passati.
Una volta superato lo shock dato dallo stile, che ricorda le versioni di latino che costituivano l'incubo dei compiti in classe del liceo, il dialogo serrato tra i due vegliardi si incentra sugli anni caldi vissuti dalla prefettura di Giudea: zona abitata da varie tribù di fede ebraica, refrattaria al comando di Roma, alla divinità dell'imperatore e all'imposizione delle leggi imperiali. Sono gli anni in cui emerge la figura di un profeta e taumaturgo destinato a cambiare le sorti del mondo e a gettare la prima pietra di una delle grandi religioni monoteiste: Gesù di Nazareth.
Perché di questo ci aspetteremmo di sentir parlare: del ruolo che ricoprì Ponzio Pilato, del suo "lavarsi le mani" della condanna di un uomo innocente. Ma assistiamo a conversazione di tutt'altro tipo. Pilato lamenta delle difficoltà dell'esercitare in quella turbolenta regione, del suo non essere apprezzato nonostante le migliorie che ha tentato di apportare, delle opposizioni da parte di Roma e dal continuo contrasto con i Giudei, delle loro rivolte e delle pretese assurde e di quel dio che non ha volto e del quale non si può pronunciare il nome.
È un bravo impiegato statale Pilato che rimpiange di non aver avuto gli avanzamenti di carriera che gli spettavano.
Non manca una semina puntuale di indizi che portano alla figura di Gesù. Viene citato l'episodio dei mercanti nel tempio
Anzi, mi fu riferito un giorno che un pazzo furioso aveva gettato a terra quei mercanti e le loro gabbie (p. 24)
e la passione amorosa e sensuale di Lamia per una donna dalla
folta chioma rossa, gli occhi annegati di voluttà, ardente e languente, flessuosa, avrebbe fatto impallidire d'invidia Cleopatra stessa (p. 30),
che altri non è che Maria Maddalena. Anche se non pare, tutto il dialogo ci sta portando alla frase finale, all'esplosivo riconoscimento dell'esistenza di Gesù il Nazareno anche se non nel modo in cui ce lo figuriamo.
Per Sciascia, quest'opera è un sommo tributo allo scetticismo, inteso come impossibilità di conoscere la verità assoluta. Perché Ponzio Pilato, come tanti, come tutti, non ha la benché minima idea di vivere in un momento epocale della Storia. Non riesce a immaginare che il dio dei Giudei possa diffondersi e arrivare fino a Roma, non ha idea di aver avuto di fronte una delle figure più importanti (indipendentemente dall'orientamento religioso) di tutta l'umanità. Da bravo lavoratore, lui ha fatto il meglio che ha potuto con gli strumenti che gli sono stati dati. La visione d'insieme, una comprensione generale di ciò che è successo e di cosa accadrà è del tutto al di fuori della sua portata. Nel leggere le sue parole, scema l'antipatia che ci insegnano a nutrire per lui, ne riconosciamo la piccineria, la banalità del male a voler portare il ragionamento all'estremo. Una piccolezza di cui tutti soffriamo e che ci porta ad attraversare la Storia inconsapevoli di quanto abbiamo attorno e incapaci di valutarlo dalla giusta prospettiva.
Giulia Pretta
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