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#PLPL19 - «Quando Frank Sheeran mi ha raccontato la sua storia, ho temuto più di una volta che la mafia mi avrebbe ucciso»: intervista a Charles Brandt.

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Incontro Charles Brandt nel corso dell’ultima edizione di Più libri più liberi. Lo scrittore americano è accompagnato dalla moglie Nancy e la prima volta che lo vedo procede con lentezza lungo i corridoi del Roma Convention Centre La Nuvola. Sono certa che l’andatura sia causata dal trambusto della fiera, dallo scombussolamento del jet leg e dai vari voli intercontinentali presi per raggiugere l’evento. Noto però nel suo sguardo il peso dell’esperienza e se unisco questo alla tenerezza con cui Brandt si relaziona alla moglie durante l’intervista, tenendole sempre la mano e coinvolgendola nel racconto, ne emerge il ritratto di un uomo che porta su di sé il peso di tutto quello che ha visto, scritto e vissuto. L’intervista è stata molto lunga, sebbene le domande non siano state moltissime: Brandt ha soppesato ogni singola parola, sia parlando del suo romanzo che del film The Irishman (che abbiamo recensito qui) diretto da Martin Scorsese (qui la cronaca dell'incontro durante la scorsa Festa del cinema di Roma) tratto dal suo libro (che Mattia Nesto ha già recensito per noi) che, inevitabilmente, è entrato nel discorso più di una volta.

Leggendo The Irishman non si può non pensare a Truman Capote e al suo A sangue freddo. Può essere considerato un modello per lei?
Sì, è stato assolutamente un modello e, anzi, ti ringrazio per averlo notato. Sei la prima persona che me lo dice e questo mi rincuora moltissimo perché Capote è stata la mia ispirazione. A sangue freddo è un capolavoro assoluto, un libro che adoro. Per tanti anni ho istruito i poliziotti su come impostare gli interrogatori e una cosa che dicevo loro era quella di noleggiare la cassetta della trasposizione cinematografica del romanzo e di guardare proprio le scene degli interrogatori perché erano estremamente veritiere ed è tutto come nella realtà.

Prima di parlare del libro, posso chiederle cos’è la verità per lei?

Tutto quello che scrivo nel libro è verità fattuale: so per certo che ciò che mi è stato raccontato da Frank Sheeran (the Irishman) corrisponde alla verità. In seguito Scorsese ha preso questa verità fattuale e l’ha trasformata in una verità universale con il suo film. Però posso attestare senza alcun dubbio che quello che racconto nel libro corrisponde ai fatti realmente accaduti: perché ho una lunghissima esperienza da PM, ho messo 4 uomini nel braccio della morte, ho seguito più di 50 casi di omicidio e ho interrogato moltissime persone. Se ci pensi il dialogo con Frank è stato, di fatto, un interrogatorio, tanto che i complimenti più sentiti sono arrivati dai colleghi poliziotti perché hanno capito cosa stavo rischiando per scrivere questo libro. Ho rischiato la vita, così come l’ha rischiata anche Frank, che dopo avermi concesso l’ultima intervista si è suicidato. Quasi come se sentisse di aver fatto finalmente pace con Dio. Ricordiamoci che Frank era cresciuto in una famiglia estremamente religiosa, la madre andava a messa ogni giorno e lo stesso Frank era comunque un normalissimo ragazzo americano fino allo scoppio della seconda guerra mondiale. Da quel momento tutto è cambiato.
The Irishman
di Charles Brandt
Fazi Editore, 2019
Traduzione di Giuliano Bottali 
e Simonetta Levantini

pp. 469
€ 18 (cartaceo)

Potrebbe descrivere brevemente la genesi della storia e il momento esatto in cui si è detto: “ok, voglio scrivere un libro su questo”?
Frank stava scontando una condanna in carcere di 32 anni. Io fui contatto da un boss di Philadelphia, Angelo Bruno, per cercare di tirarlo fuori perché aveva problemi di salute. Alla fine ce l’ho fatta e Frank è stato scarcerato. Quando l’ho incontrato per la prima volta, la prima cosa che mi ha detto è stata che, mentre era in cella, aveva letto i miei libri (inediti in Italia, n.d.r.) e in alcuni aveva ritrovato il tema della confessione, un bisogno intrinseco dell’essere umano. Aveva chiesto di me proprio perché questi libri gli erano piaciuti tantissimo. Era stanco di sentire parlare di sé in terza persona, soprattutto nei testi dedicati al caso di Jimmy Hoffa, mi voleva raccontare la sua versione dei fatti: io capii che in realtà voleva confessarsi. Allora ci siamo incontrati in una prima sessione di 5 ore e quando due giorni dopo sono tornato da lui con ciò che avevo scritto, ma Frank si è messo molta paura, pensò di star dicendo troppe cose, del resto all’epoca Russel Bufalino (Joe Pesci) era ancora vivo, così come il suo vice: ha temuto sinceramente che se loro avessero scoperto del nostro dialogo non avrebbero esitato a farlo fuori. E per questo è scomparso. Otto anni dopo si è fatta viva sua figlia Dolores: Frank si era reso conto di essere al tramonto della vita e dopo aver chiesto, e ottenuto, l’assoluzione da parte di un prete, ha contatto me perché voleva raccontarmi tutti i dettagli che al confessore aveva taciuto. E allora abbiamo ricominciato a parlare e la cosa si è protratta per 5 anni, trasformando il dialogo in un vero rapporto personale. Spesso parlavo con lui in presenza di mia moglie (la bacia) o in alcuni club gestiti dalla mafia, quei locali in cui non entri se non sei un certo tipo di persona e in cui ancora Frank era il benvenuto perché tutti gli volevano un gran bene. C’è da dire che i rischi non erano venuti meno perché, sì, Bufalino era morto ma non il suo vice, che di certo non vedeva di buon occhio che Frank avesse deciso di raccontarmi la storia dal punto di vista della mafia. Sono sicuro che se i boss avessero solo lontanamene capito cosa Frak mi stava raccontando, non avrebbero esitato a farci fuori. Joe Pistone (l’agente FBI infiltratosi nella mafia di New York con il nome di Donnie Brasco, n.d.r.) mi ha detto: “guarda, tu forse non ti sei reso conto del rischio che avete corso”. Non vi nego che in certi momenti ho avuto tanta paura. Poi, alla gente che mi chiede quanto fossi preoccupato dalla cosa rispondo “ma non lo sapete che sono italiano? Noi non temiamo nulla!”.

I protagonisti principali della storia sono tre: Frank Sheeran the Irishman, Bufalino e Jimmy Hoffa. Come descriverebbe la relazione che li lega?

Frank non era solo un criminale; prima di tutto era un essere umano complesso e variopinto. Da un lato era un uomo che ha ucciso più di 30 persone (escludendo le vittime causate in guerra), dall’altro però era uno che insegnava a ballare nelle balere, che ha insegnato a ballare la rumba alla figlia. Era veramente una persona deliziosa con cui stare. Mia moglie Nancy spesso mi diceva che doveva darsi un pizzicotto per ricordarsi chi era davvero Frank e cosa aveva fatto, perché quando anche lei era con me durante i nostri dialoghi, lui era affabile e gentilissimo. Parlando del triangolo con Bufalino e Hoffa, diciamo che Frank si è trovato in mezzo a due forze molto più grandi di lui. Da una parte Jimmy Hoffa, il suo mentore e il suo amico. Mi ricordo che una volta a un firmacopie si è avvicinato un uomo e si è presentato come Bob Garridy. Il nome non mi era nuovo e infatti poco dopo mi ha detto di essere stato l’agente dell’FBI responsabile del caso Hoffa e che “tra di noi all’FBI eravamo sicurissimi che c’era un vero e proprio rapporto di amore tra Hoffa e Frank”. Erano una famiglia. Dall’altra parte c’era però Bufalino, un uomo spietato ma, anche lui, davvero piacevole da frequentare. Frank mi raccontò che quando Bufalino gli diede l’ordine di uccidere Hoffa, sapeva di non potersi tirare indietro perché il boss avrebbe ucciso lui, la sua famiglia e tutti gli ostacolatori dell'omicidio.

Per la prima volta in The Irishman viene sgonfiata l’epopea dei gangster per raccontare le dinamiche dei fatti senza eroismo. Quanti danni crede siano stati causati da questo modo di raccontare la mafia, soprattutto nel cinema o nella letteratura?
Io e Joe Pistone (Donnie Brasco) siamo molto amici ed entrambi concordiamo che molti libri e film abbiano, di fatto, glorificato persone totalmente disgustose. Solo che quelle persone non si sporcavano mai le mani e apparivano sempre “pulite”: prendiamo Bufalino, lui ha ordinato un’infinità di omicidi, ma non ne ha mai eseguito uno in prima persona perché presiedeva una catena di comando lunghissima al cui estremo c’erano i piccoli criminali che eseguivano i suoi ordini. Oggi non è più così. Ne 1985 Rudolph Giuliani, allora PM di New York, insieme al collega Lindley Devecchio, nel corso del Mafia commission case provò a sbattere in galera direttamente i boss e non i pesci piccoli. E ci riusciì, emettendo anche sentenze di cento anni o più e non so quanti ergastoli. Da quel momento la mafia non è più quella dei tempi di Frank quando i mafiosi non venivano condannati e i criminali si sarebbero scannati pur di diventare dei boss. Adesso nessuna sogna più di fare il capoclan. Solo un pazzo come John Gotti può aver deciso di diventare il boss della famiglia Gambino: e certo, non lo voleva fare nessuno! Ho scritto un libro con Lind Devecchio che mi auguro venga pubblicato in Italia proprio a proposito di questo terremoto causato alla mafia: Lin venne incastrato da due mafiosi con l’accusa di omicidio… ma non vi dico altro, vi toccherà leggere il libro. Io ve lo sto dicendo (rivolgendosi a Thomas Fazi che fungeva da interprete, n.d.r.).

 

Intervista a cura di Federica Privitera