di John O’Hara
traduzione di Vincenzo Mantovani
Racconti edizioni, 2019
pp. 118
€ 13,00 (cartaceo)
«Non si pianta mai il cinema, Jim. Ci si ritira per forza. Il sonoro ha spazzato via quelli che non sapevano leggere le battute o che avevano voci poco fotogeniche. Ma non l’hanno abbandonato loro. Una regina non… come si dice?»«Abdica.» (p. 16)
Leggendo la postfazione a questo
libriccino non possiamo non dar credito alle parole dell’editore quando
afferma, dopo aver svolto una rapida incursione nella vita privata
dell’autore, che O’Hara aveva doti da «origliatore di conversazioni altrui» (p.
108) che l’hanno reso «famoso per i dialoghi»: senza nulla togliere alla
costruzione di una trama che riesce a far rivivere in questa nostra Europa
contemporanea piena di social network, smartphone e televisori in HD la
meraviglia dei ruggenti anni Venti, con i loro film muti, i loro cocktail party
à la Grande Gatsby e le loro enclave
altoborghesi che incarnano lo spirito del sogno americano; e senza
sminuire l’altrettanto straordinaria capacità di dettagliare in pochissimi
tratti personaggi in grado di emergere dallo sfondo per risaltare sul
palcoscenico e conquistarsi in poche battute il proprio spazio, è nel parlato che O’Hara rivela una maestria in grado di
incatenare alla lettura.
Non è un caso, forse: tanto lo scrittore John O’Hara quanto il suo alter ego letterario, il giornalista Jim Malloy, tentano la scalata
sociale, e sebbene il sogno americano poggi le sue basi sul duro lavoro e sui
sacrifici di una vita è durante una conversazione in uno speakeasy o nella
villa di campagna di un ricco possidente che è possibile cogliere l’occasione
della propria vita, sia questa un matrimonio o un’allettante proposta
lavorativa. Il dialogo, dunque, la conversazione e l’interazione diventano
elemento fondamentale della costruzione del proprio status sociale; e per poter
dire le cose giuste al momento giusto, necessario è carpire informazioni da chi
quella scalata l’ha fatta prima di noi e quindi, con grande garbo e altrettanto
grande capace di mimesi, ecco emergere l’origliatore, colui che mentre
sorseggia un whisky o un martini fingendo noncuranza sta in verità apprendendo l’arte
più sofisticata.
Origliare, memorizzare, riprodurre e infine confezionare, ma senza edulcorare: accogliere il mondo circostante per poi riversarlo,
amplificato e dettagliato ma non falsato, sulla carta – nella bandella di
destra come nella postfazione si parla di 247 racconti pubblicati in circa
quarant’anni sulle pagine del New Yorker – conferendo, soprattutto nelle
ultime righe di questo racconto lungo, quella sensazione di "bei tempi andati", una sensazione senza dubbio legata alla giovinezza del protagonista
che, pur immerso in un ambiente tanto prolifico di opportunità quanto ostile –
una parola di troppo e sei fuori dai giochi, almeno questa è l’idea che ci si
fa –, sa di potersi concedere il lusso di uscire dall’affettazione richiesta
dal proprio personaggio sociale, anche solo per una volta, anche solo per un
cocktail di troppo.
D’altronde la giovinezza è la patria
dell’errore, di quell’errore che per quanto infamante possa essere, e per
quanto possa costare – perdere il lavoro? Perdere la donna che si sta
corteggiando? – si avrà sempre, se si hanno le giuste capacità o le giuste conoscenze, modo di poterlo recuperare, perché l’America è
grande e fra la costa est e quella ovest c’è un universo ancora vergine da conquistare, sebbene in modo diverso da come l'abbiano fatto i padri qualche secolo (ma neanche troppo) prima.
La collana Scarafaggi di Racconti edizioni,
inaugurata dalla Casa della fame di
Dambudzo Marechera e al terzo volume con questa Ragazza nel portabagagli, colleziona piccoli gioielli, e lo fa
incartandoli in una confezione che, personalmente, trovo di notevole qualità e gusto. A
leggere la nota del traduttore Vincenzo Mantovani so che usciranno a breve
anche gli altri due racconti di O’Hara che andranno a completare la trilogia Prediche e acqua minerale, e
sinceramente non vedo l’ora di leggerli.
David Valentini