Nell'antro dell'alchimista
di Angela Carter
Fazi, novembre 2019
Traduzione di Susanna Basso e Rossella Bernascone
pp. 380
€ 17,50 (cartaceo)
€ 12,99 (ebook)
Sono davanti al computer cercando di mettere in ordine pensieri e considerazioni su Nell’antro dell’alchimista, il primo volume dei racconti di Angela Carter da poco uscito in italiano per Fazi editore e mi rendo conto che questa raccolta è proprio come lei: eclettica, trasformista, incantatrice, originale e fiera. E che almeno un paio di racconti di questa raccolta, il primo di due volumi che comprenderanno tutta la produzione breve di Carter, meriterebbero un approfondimento a sé, per la ricchezza tematica e stilistica, le contaminazioni, gli echi della tradizione letteraria su cui si poggiano e l’influenza dell’autrice sulla short story contemporanea. Perché Angela Carter rientra a pieno titolo tra le maggiori scrittrici di racconti del XXI secolo, accanto a Shirley Jackson, Lucia Berlin, Edna O’Brien, solo per citarne alcune, e la sua scrittura barocca, visionaria, sontuosa, a tratti incontenibile sulla pagina, si esprime al massimo proprio nel racconto. La sua voce incanta, talvolta soffoca e si ha bisogno di prendere le distanze, tornare momentaneamente a qualcosa di più essenziale, “pulito”, per poi immergersi di nuovo in queste atmosfere gotiche, la lingua ricchissima, il gusto per la fiaba, l’esotico, l’erotismo.
In questo volume con racconti tradotti da Susanna Basso e Rossella Bernascone, sono riunite le prime tre raccolte di Carter: Primi racconti, con scritti dal 1962 al ’66, Fuochi d’artificio, del 1974, e La camera di sangue e altri racconti, del ’79, un viaggio nella scrittura e nella sensibilità letteraria di Carter, di cui il racconto La camera di sangue è senza dubbio il capolavoro assoluto.
Nel racconto “La camera di sangue", ritroviamo tematiche e influenze care all’autrice, rielaborate nella propria particolare visione: gli elementi tradizionali del gotico inglese tra atmosfere, stati d’animo e orrori, la solitudine schiacciante della protagonista, la violenza, l’erotismo, la disperata lotta per salvarsi. Ci sono gli elementi più tradizionali del genere – un castello a picco sul mare, una camera che nasconde oscuri segreti, morti misteriose, una giovane innocente, un marito-padrone affascinante e spaventoso – e una tensione crescente costruita con precisione per avvincere il lettore, ma è l’incubo immaginato da Angela Carter e a partire da elementi noti costruisce la propria visione della storia, arricchendola di un erotismo feroce e, soprattutto, rileggendo in chiave femminista l’impianto tradizionale della storia.
È proprio qui, a mio parere, la qualità principale di Carter che riesce a rivisitare la favola e il mito investendoli di nuovi significati. Sono le donne, quasi mai fate benevole, con le loro innumerevoli sfaccettature, il cuore della narrazione: streghe, vergini ingenue, figlie abusate, ammaliatrici, vampire, amanti abbandonate, madri salvatrici, bambine e donne di cui l’autrice indaga gli angoli più oscuri del cuore, le pulsioni sessuali, i desideri che conducono alla rovina, la forza e la debolezza.
È tanto bella da essere innaturale; la sua bellezza è un’anomalia, una deformità, perché nei suoi tratti non vi è traccia di quelle imperfezioni commoventi che sanno riconciliarci con i difetti della condizione umana. La sua bellezza è sintomo della sua alterazione, della sua empietà. (p. 323, “La signora della casa dell’amore”)
La bellezza dietro cui si cela l’orrore, la vera natura dell’essere. È, spesso, un gioco di maschere con cui nascondere il vero volto quasi sempre spaventoso: la Bestia che si finge uomo, la bellezza che ammalia e distrae dalla vera natura, la fredda compostezza del volto a coprire la brutalità, la dama rosa dalla gelosia. Quasi nulla è ciò che appare, in un gioco di specchi e strati da scoprire che Carter guida abilmente.
I mostri, quelli veri, spesso sono semplici uomini – mariti, padri, amanti – dai cui soprusi le donne cercano di difendersi, liberarsi. Un imprigionamento reale o metaforico e, parallelamente, una ribellione a regole e stereotipi che attraversa tutti i racconti di Carter, richiamando alla mente autrici diverse per scrittura, periodo di attività e ambientazioni, ma di cui si avverte la presenza come influenza diretta per Carter o nell’esperienza del lettore. Penso per esempio a The Yellow Wallpaper, della statunitense Charlotte Perkins Gilman le cui atmosfere, il senso di oppressione e di tragicità imminente, la ribellione verso un matrimonio sempre più opprimente, ha molto in comune con alcune storie di Carter, a partire da La camera di sangue.
Perché dietro le maschere, la riscrittura delle fiabe classiche, il mito e il soprannaturale, quello che intriga maggiormente dei racconti di Carter è la sua capacità di indagare le pieghe più oscure dell’animo umano, assolutamente reali nel proprio orrore, nelle debolezze, nei desideri.
Gli abissi di solitudine ed estraneità che racconta, per esempio, nelle sue storie “giapponesi”, dove le atmosfere gotiche viste finora lasciano il posto al fascino dell’Oriente:
Lungo il sentiero c’erano delle bancarelle dove cuochi a torso nudo con in testa fasce anti-sudore cuocevano sulla carbonella pannocchie di granoturco e seppie. Comprammo degli spiedini di seppie e li mangiammo per la via. Li avevano intinti nella salsa di soia ed erano molto buoni. C’erano anche delle bancarelle che vendevano pesciolini rossi in sacchetti di plastica e altre grossi palloncini con orecchie da coniglio. Sembrava una fiera – ma era così ordinata! Perfino i poliziotti di pattuglia portavano lanterne di carta colorata invece delle pile. (p. 56, “Souvenir del Giappone”)
Ma è un incanto imperfetto: tra quelle vie ordinate, dietro l’eleganza dei rituali, si celano solitudini, abbandoni, ipocrisia. Amanti in attesa, silenzi disperati, rigidi codici morali e stereotipi difficili da abbattere:
Questo paese ha elevato l’ipocrisia al massimo livello di stile. Guardando un samurai non si direbbe che è un assassino, né che una geisha è una puttana. La magnificenza di tali oggetti quasi non appartiene all’umano. Vivono in un mondo di icone e in quello partecipano a rituali che trasformano la vita in una serie di gesti sublimi, tanto commoventi quanto assurdi. (p. 65, “Souvenir del Giappone”)
Carter, che a lungo ha soggiornato in Giappone, rivela in questi racconti il fascino che quel Paese ha esercitato su di lei e si serve delle atmosfere malinconiche e ordinate per indagare l’anima dei personaggi di queste storie, che si fanno intime, sospese nel tempo, fluttuanti, dove l’orrore è l’abisso della solitudine.
Non è facile camminare tra le storie di Angela Carter, le atmosfere si fanno opprimenti, la lingua talvolta troppo sontuosa e barocca; eros, incesto, violenza, ossessionano la scrittrice e a tratti ne appesantiscono la scrittura. Eppure. Eppure, nonostante qualche debolezza, i racconti di Carter hanno la forza della scrittura che sa portarci oltre la zona di comfort, indugiare nelle pieghe più oscure, mescolare realtà e immaginazione, in un gioco di rimandi letterari, spunti, tematiche con cui confrontarsi. Su tutto, ancora, la sfumatura femminista che lega ogni scritto di Carter, il ritratto di una femminilità selvaggia, che tenta di svincolarsi da stereotipi e soprusi. In quelle giovani che scoprono il desiderio, in quelle eroine che cercano da sé la propria salvezza, nelle madri che combattono contro i mostri.
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