di William Melvin Kelley
NN Editore, 2019
Traduzione di M. Testa
pp. 253
€ 19,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
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Sutton è un paesino del profondo sud, al cuore di un immaginario stato americano e luogo di nascita misconosciuto dell’eroe locale, Dewey Willson, Generale confederato grande quasi quanto Lee. A interrompere con una deflagrazione la pigra quotidianità rurale, che vive di pettegolezzi e abitudini inalterate, in un qualsiasi giovedì dell’estate del 1957 ha luogo un fatto inusuale, la cui entità gli abitanti ancora non riescono a intuire: guidati dall’orgoglioso Tucker Caliban, discendente dell’Africano, uno schiavo leggendario entrato a far parte della mitologia cittadina, tutti i neri del paese – tutti i neri dello Stato – si allontanano in massa. Distruggono le loro proprietà, raccolgono le loro cose, e partono per non tornare. Per una popolazione di stampo ancora prevalentemente razzista, questo – almeno all’inizio – appare fondamentalmente un bene, un modo per riacquisire un pieno controllo sulla propria terra, oppure il segno di una tara genetica razziale (“Di punto in bianco il sangue ha cominciato a formicolargli nelle vene e lui ha iniziato questa… questa rivoluzione qui. [...] Dev’essere il sangue dell’Africano!”, p. 14). Sola voce fuori dal coro è quella Harry, che con modi rudi cerca invece di spiegare al suo bambino di otto anni – soprannominato ironicamente da tutti “il signor Leland” – che bisogna accettare l’altro nella sua diversità, cercare di capirlo e non utilizzare termini offensivi, per prepararsi a un diverso mondo a venire, finora solo vagamente intuito, eppure ormai prossimo.
Quando la “combriccola della veranda” del negoziante Thomason, al seguito dell’autorevole signor Harper, si trova di fronte a Tucker che getta manciate di sale sui propri campi, pensa subito che l’uomo sia impazzito. I più saggi si rendono però conto che non c’è in lui ombra di pazzia e ne scorgono invece la fredda, malinconica determinazione (“Non è la pazzia che lo spinge. Non so cos’è che lo spinge, ma non è la pazzia”, p. 55).
Il fenomeno inspiegabile viene ripreso, rinarrato, analizzato, scomposto nel corso dei capitoli attraverso il continuo variare della focalizzazione e dei piani temporali. In alcuni casi, sono i singoli personaggi a prendere la parola in prima persona. Una delle abilità dell’autore è quella di riuscire a restituire, attraverso una attenta mimesi linguistica, le diverse voci, creando non pochi problemi (ma anche grandi soddisfazioni) alla brava traduttrice. Martina Testa ci descrive il suo lavoro in una Nota conclusiva, in cui manifesta il suo pieno entusiasmo per la prosa piana, eppure incalzante dell’autore: “William Melvin Kelley in questo romanzo vive di una tale spontaneità che mi sembrava di sentire subito in testa le voci dei personaggi, di vederne i gesti, di viverci in mezzo” (p. 246). L’imitazione non riguarda infatti solo la veste linguistica (l’estrazione culturale, l’appartenenza regionale dei personaggi), ma anche il loro modo di pensare e di guardare al mondo. Quello di Kelley è un vestire i panni altrui, che gli riesce con straordinaria efficacia (così si può passare dalla prospettiva dell’uomo adulto, a quella del bambino, fino ad arrivare alla ragazzina adolescente, senza soluzione di continuità e soprattutto senza perdere nulla in verosimiglianza narrativa). Quello che spinge tutti è la comune curiosità per le ragioni che possono avere mosso Tucker, un soggetto fuori dalle righe, laconico ma molto determinato, ad agire come ha agito, a mettere in moto il meccanismo che ha innescato.
Le risposte definitive sono però molto lontane per i singoli, e solo di poco avvantaggiato è il lettore, che può assemblare come in un patchwork i diversi scampoli di informazione. Il gesto di Tucker viene letto dai comprimari come qualcosa di epico e primitivo al tempo stesso, qualcosa che affonda alle radici dell’umano: un bisogno primigenio che non ci si rende conto di avere, ma che quando emerge non può essere messo a tacere. Così accade A Tucker a cui “avevano rubato qualcosa ma lui non se n’era mai accorto, perché la cosa che gli avevano tolto non sapeva nemmeno di averla” (p. 81). I bianchi intuiscono che qualcosa di grande sta avvenendo, qualcosa di rivoluzionario, ma non sanno dargli un nome. Ci vuole il Reverendo Bradshaw, padre dei Gesuiti Neri, che viene dal Nord, per dare voce al processo in atto:
“È iniziato da qui, signor Willson. È stato il suo amico Tucker Caliban a cominciare tutto. Questo bisogna riconoscerglielo. Quanto a me, ammetto il mio errore: non avrei mai immaginato che un movimento del genere potesse partire dall’interno, potesse partire dal basso, dalle radici, per combustione spontanea, si potrebbe dire”.
Ero incredibilmente ottuso. “Quale movimento?”.
“Tutti i neri, signor Willson, stanno partendo, stanno andando via”. (p. 145)
Ad accendere la miccia della rivolta silenziosa, non sono idee radicali, innovative, ma le “vecchie idee, [le] più semplici, [le] idee basilari che forse abbiamo trascurato, o mai nemmeno messo alla prova” (p. 146). Tucker ci si attacca come chi le scopre per la prima volta, e questo lo rende inarrestabile. Il suo gesto, la sua scelta di pretendere per sé la libertà a cui ha diritto, getta una nuova luce sui rapporti di potere, anche all’interno della comunità nera (di estremo interesse è la posizione del Reverendo Bradshaw, sempre più cupo e ombroso man mano che si rende conto che qualcuno è riuscito laddove lui ha fallito, che il successo di un movimento scaturito dal basso ha reso vano, “obsoleto”, il suo ruolo di leader).
A poco a poco, nei continui salti spaziali e temporali in cui la narrazione ci trascina, il quadro si amplia a rivelare un affresco più complesso: quello della cittadina di Sutton con le sue ipocrisie, i suoi vezzi, e quello della famiglia Willson, con le sue contraddizioni e i suoi nodi irrisolti, le sue scelte mancate. Ogni personaggio racconta la propria versione, univoca e personale, e al tempo stesso viene visto attraverso gli occhi dei altri, raccontato attraverso una percezione differente. Kelley gestisce i diversi fili della trama con grande sapienza, creando tra le diverse voci un equilibrio perfetto, consolidato grazie a una fitta serie di rimandi interni. Perché la ribellione di Tucker dà risposte, in modo diverso, alle domande di ognuno: ognuno riesce a trovarvi un senso, parziale o definitivo, negativo o positivo, per la propria vita e le proprie credenze.
Di colpo, eccola lì, la notizia che, ora me ne rendo conto, aspettavo di vedere (mi affretto ad aggiungere che non avevo mai pensato di vederla veramente, e non sapevo che forma avrebbe avuto, ma appena l’ho vista l’ho capito, all’istante), rannicchiata in cima a pagina 20, [...] per il caporedattore solo un gradino al di sopra di un puro riempitivo, ma per me, se fossi stato io a fare il giornale oggi, tanto importante da meritarsi otto colonne in prima pagina, forse annunciate da un titolo in caratteri cubitali come quelli dell’attacco di Pearl Harbor. (p. 172)
Così, tassello dopo tassello anche il lettore inizia a capire, a dare un significato all’accaduto. E l’opera, che già funzionava, si rivela sempre più giusta, necessaria, adatta ai tempi (non solo quelli in cui è stata scritta). La citazione di Thoreau posta in epigrafe ci anticipava che “se un uomo non marcia allo stesso passo dei suoi compagni, forse è perché sente il ritmo di un altro tamburo. Lasciatelo seguire la musica che sente, comunque sia scandita e per quanto sia distante”. Il problema è che solo pochi illuminati sono disposti ad aprire le orecchie, a cercare di mettersi in sintonia con quel ritmo nascosto, mentre resterà sempre una maggioranza becera che permarrà sorda e cieca, non disposta ad ascoltare davvero. È questo il grande problema delle rivoluzioni, che il romanzo mette bene in evidenza con un finale che per certi versi è sorprendente, per altri tragicamente prevedibile. Se la partenza di Caliban viene vista come uno slancio misterioso e arcaico, è con un rituale barbaro e triviale che il popolo ignorante deve esacerbare la propria rabbia repressa, la frustrazione derivante dalla propria incapacità di comprendere. Quello che Kelley traccia è un apologo morale di raro impatto, di incredibile attualità, nonostante risalga al 1962 e faccia riferimento a una specifica situazione storica. Nel procedere delle pagine, questo sfasamento temporale non si avverte, e anzi l’opera si configura, nella forma e nei contenuti, come una metafora vividissima dei nostri giorni. La lettura è quindi tanto più importante oggi quando, in un contesto cambiato, si rischia di riproporre dinamiche simili, rispetto alle quali sarebbe necessaria una maggiore e sempre più profonda consapevolezza.
Carolina Pernigo