Da insegnante ogni tanto me lo chiedo, se abbia ancora senso consigliare, tra le proposte di lettura, i classici che sono stati suggeriti a noi quando eravamo studenti. Rispondere a questa domanda implica riprenderli in mano a distanza di tempo e provare a rileggerli come fosse la prima volta, e con uno sguardo il più possibile ingenuo: cosa mi dice questo libro? Il linguaggio è accessibile? La trama parla ancora, al lettore contemporaneo? Ci ricorda Italo Calvino che “un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”; diventa tanto più importante allora interrogarsi su cosa sia “classico” oggi, su quale tipologia di testi possa trasmettere qualcosa di importante, fosse anche soltanto il piacere e il trasporto della lettura, alle nuove generazioni. In alcuni casi la risposta è netta, inevitabile. Ci sono libri che parleranno sempre, se affrontati al momento giusto, nel contesto giusto, dal lettore adeguato. Compito del docente sarà allora selezionare al meglio le proposte, per trovare quei titoli in cui queste tre caratteristiche si intersecano con più precisione. Esistono però anche delle situazioni sfumate, in cui non è così facile prendere posizioni. In terza media, il libro scelto per l’ora di narrativa dalla mia insegnante era stato La fattoria degli animali di Orwell. Diventata grande e passata al di qua della cattedra, io probabilmente la giudicherei una scelta errata sotto molti punti di vista.
Ci sono testi indubbiamente classici, in cui la lingua appare però oggi eccessivamente desueta, in cui il ritmo sembra incompatibile con la resistenza di un lettore non avvezzo, in cui la decifrazione del tessuto narrativo richiede competenze che forse non dovremmo dare per scontate, non certo perché i nostri ragazzi siano più ignoranti di quanto lo fossimo noi, ma perché sono cambiate le abitudini, le modalità, i gusti letterari.
Il problema si riscontra, a mio avviso, più forte, nella narrativa di genere: quella che per noi era una forma di intrattenimento, una lettura assolutamente godibile, può ancora rivelarsi tale? Mi è capitato spesso di pormi questa domanda maneggiando da adulta i libri di Agatha Christie. Quando ero alle superiori, dilagava una vera e propria Marple-mania (ma anche Poirot non ci dispiaceva). Leggevamo i romanzi della Christie con straordinaria facilità e leggerezza, lo consideravamo un momento di piacere, non certo un impegno intellettuale. Questo sarebbe ancora possibile, se il nostro punto di riferimento fosse il lettore medio, o debole, e non quello veramente appassionato?
Per provare a darmi una risposta, riprendo in mano Assassinio sull’Orient-Express che, diciamolo, a parte la base della trama non ha molto a che vedere in termini di stile con gli effetti speciali e il tripudio d’azione del recente film che ne è stato tratto (e che, quello sì, è piaciuto tanto a tutti gli studenti con cui ho avuto modo di parlarne). Agatha Christie utilizza un linguaggio molto preciso, puntuale nelle descrizioni e nell’aggettivazione. Sicuramente alcuni termini risultano preziosi anche nella traduzione italiana. I capitoli iniziali presentano un lieve grado di difficoltà derivante dall’abitudine dell’autrice di presentare al più presto tutti i personaggi, connotandoli attraverso pochi tratti, in modo da renderli riconoscibili: non è così facile farsi immediatamente un quadro complessivo delle forze in campo, e spesso è necessario tornare alla sintesi dei “Personaggi principali”, immancabilmente posta all’inizio del volume. È anche vero che la relativa brevità dei capitoli e la frequenza dei dialoghi contribuiscono a muovere la narrazione, a garantire un passo svelto una volta che ci sia calati nella storia. Agatha Christie, poi, da vera maestra del giallo, costruisce un meccanismo perfetto, in cui ogni elemento è un ingranaggio fondamentale da tenere presente per comprendere il funzionamento complessivo. L’ottica con cui il lettore deve leggere i suoi volumi è quindi quella del detective, etimologicamente colui che scoperchia il mistero, va a guardarci dentro per scoprire una verità nascosta, rivelata da indizi opportunamente disseminati. Quella che la Christie pone al suo pubblico è una sfida intellettuale che deve essere colta per dare un senso alla lettura.
In Assassinio sull’Orient-Express l’indagine è resa più stimolante dal fattore isolamento che, come nel caso di Dieci Piccoli Indiani, limita di molto le possibilità e allo stesso tempo aumenta la tensione (poiché nello spazio ristretto del vagone Istanbul-Calais, bloccato e isolato dalla neve, si nasconde indiscutibilmente un omicida in mezzo a passeggeri presumibilmente innocenti). La struttura dell’opera è perfettamente scandita, ordinata con rigore: oltre alla presentazione dei personaggi, i fatti che circondano il delitto, le prime ricostruzioni sul cadavere e la scena del crimine, gli interrogatori di tutti i sospettati, infine le valutazioni da parte di Poirot, che poco a poco raccoglie e assembla gli indizi, scremando tra quelli veritieri e quelli che si rivelano inutili depistaggi. La logica è sempre quella razionale, che deve guidare anche il lettore: “l’impossibile non può essere accaduto; quindi l’impossibilità deve essere possibile, nonostante le apparenze”. E la realtà che si cela dietro le apparenze risulterà “più strabiliante di qualsiasi romanzo poliziesco che abbia mai letto”, come osserva uno degli assistenti alle indagini di Poirot nelle fasi conclusive del disvelamento. Perché la verità è che la trama ideata da Agatha Christie supera qualsiasi possibilità immaginativa, ed è solo grazie all’intuito un po’ beffardo del detective che si riescono a ricostruire le vere dinamiche del crimine, al di là delle menzogne dei singoli. Elemento di difficoltà nell’approdare a una soluzione risiede nel fatto che l’investigatore non imbroglia, ma i personaggi sì, e quindi anche al lettore serve una guida sapiente per comprendere come siano andate le cose.
Il finale però appaga anche lo spirito più critico, nel momento in cui ogni dettaglio viene giustificato e ogni tassello, ogni indizio disseminato nel testo, retrospettivamente trova un senso. Ci si chiedeva in principio se, al tempo delle serie tv, dei lungometraggi dal ritmo incalzante, il romanzo giallo di matrice classica possa ancora funzionare. A me pare che, in fin dei conti, non se ne possa davvero dubitare.
Carolina Pernigo
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