Salvatore Torre et al.
Libreria Editrice Vaticana, 2019
a cura di Antonella Bolelli Ferrera
Introduzione di Mons. Dario E. Viganò
pp. 173
€ 10,00
È un’opera strana e composita, quella edita dalla Libreria Editrice Vaticana, un’opera che però prosegue idealmente e completa le raccolte dei racconti vincitori del Premio Goliarda Sapienza (recensite qui). A intessere la trama di questa storia a più voci è Salvatore Torre, ergastolano, che si è già distinto per la forza della sua prosa nelle precedenti edizioni del Premio. A lui la curatrice, Antonella Bolelli Ferrera, ha assegnato il compito di passare in rassegna i testi giunti al concorso e mai premiati, ma non per questo meno efficaci o meno veri. Lui li ha guardati con gli occhi di chi li comprende realmente (“le loro storie sono la mia”, p. 17), lui li ha selezionati, tagliati, assemblati a tracciare un percorso, a individuare un filo tematico, sempre partendo dalla propria esperienza diretta, dal proprio vissuto. Centro di tutto è l’Atonement a cui rimanda il titolo, quell’espiazione che diventa anche occasione di redenzione nel momento in cui il soggetto accetta di farsi carico dei propri trascorsi, della propria colpa.
Atonement […] è un termine che nel contesto di questo libro è volutamente ambiguo. Da un lato può essere compreso nel suo risvolto puramente negativo, come un conto da pagare per il male compiuto; dall’altro proprio nel contesto della rivelazione giudeo-cristiana Atonement indica l’azione di Dio che si fa carico del peccato dell’uomo per consumarlo, interrompere così la catena del male e aprire sentieri di speranza. [...] Il consegnare se stessi e la propria storia [...] è già aprirsi alla speranza di vere relazioni, mentre dal canto suo il crimine [...] sempre le infrange e le nega. (p. 11)
Non basta la confessione per assicurare l’assoluzione, ma certo nel raccontare la propria storia si nasconde un desiderio – e una possibilità – di riscatto, un primo passo verso una accettazione di sé che è preludio al perdono. Come osserva nella Prefazione Mons. Dario E. Viganò, “dinanzi alle pagine di questo libro la resistenza è forte”, ma quello a cui siamo chiamati non è tanto la giustificazione delle colpe, l’attenuazione del peso del crimine (cosa che risulterebbe in certi casi impossibile), quanto piuttosto un esercizio di empatia, un tentativo di comprensione.
La prima domanda che Salvatore Torre si e ci pone è se esista davvero una scelta, rispetto a quel terreno franoso che è la vita criminale: se le istituzioni non sono in grado di offrire alternative, di suggerire vie altre, i ragazzini potranno mai immaginare una vita diversa rispetto a quella in cui sono inseriti, dominata da ignoranza e relazioni disfunzionali? La risposta sembrerebbe essere negativa, anche per chi fatica ad accettare idee deterministiche e crede nella libera presa di posizione individuale.
Fin da subito vediamo, nella scrittura di Torre, uno scavo quasi chirurgico nelle origini del male, un’analisi lucida e precisa delle dinamiche che l’hanno portato a essere quello che è, o che era prima della sua scelta di cercare nella scrittura una forma di salvezza. L’idolatria per un padre violento e anaffettivo, oltre che criminale; un disperato desiderio di riconoscimento e rispetto; l’incontro con un altro diseredato, un amico fidato che non può però essere modello di virtù, ma solo di dispersione, che non è in grado di proteggere, ma solo di farsi complice nella rovina. La sua voce anticipa e riflette le altre voci, tutte diverse, eppure infinite variazioni sullo stesso tema, che arrivano in faccia al lettore con il loro carico di violenza e disperazione. La resistenza di cui parlava Monsignor Viganò è principalmente quella che si prova davanti a questi frammenti di esistenza, che sono tanto più intollerabili perché ci risultano veritieri, vivi, spaccato di una realtà a cui preferiremmo non pensare. Atonement è un romanzo corale, in cui le voci si intrecciano non a creare una storia comune, ma a riattaccare i frammenti di un unico specchio rotto. L’articolazione tematica scelta da Torre accompagna il lento precipitare nell’abisso: l’imprinting criminale, la frattura che è l’ingresso in carcere, la vita da detenuto, la sofferenza dell’accettazione della propria colpa, la difficoltà della coesistenza con la diversità, la barbarie disumanizzante delle dipendenze... le voci si moltiplicano sulla pagina e finalmente, dopo essere state lungamente inascoltate, chiedono udienza, ci forzano alla riflessione:
Ti sei condannata da sola. Prima, molto tempo fa. Ora, è solo una resa dei conti. La tempesta che ha devastato la tua vita a già spazzato via il lavoro, la casa e forse anche chi ti amava. Tutto ora è fuori. E dentro ci sei tu, senza più scelta. (p. 46)
Fatece vive ar mejo la detenzione, se puro quarchiduno nun n’è degno, fate che nun sia vendetta, ma solo punizione. (p. 58)
Non c’è nessuno che ti dice che quello che hai fatto è sbagliato, nessuno che ti aiuta a pensarla diversamente; lì dentro troverai solo gente che ti esalterà per aver fatto quello che hai fatto, gente che ti convincerà di non aver sbagliato niente. (p. 73)
La prigione non mi aveva cambiato, anzi in un certo qual senso mi aveva incattivito. Le privazioni, le umiliazioni, le delusioni familiari e mettiamoci anche le violenze fisiche e psicologiche subite avevano fatto di me una persona scontenta e, una volta uscito, giurai che avrei avuto a ogni costo la mia “rivincita“. (p. 86)
Il mio destino cambiò nel bagno di un autogrill. Il mio amico riempì la siringa, io non esitai e stesi il braccio. Fu la fine. (p. 112)
Quant’è il mio tempo, come dargli un senso quando in quel foglio c’è scritto: “FINE PENA MAI”? (p. 167)
Voci di uomini e di donne, voci giovani e meno giovani, voci disperate o aggrappate alla vita, vite che stanno capendo qualcosa o poco alla volta disperano. Voci che ci interrogano sull’efficacia di un sistema carcerario che, in molte regioni d’Italia, non solo non offre alcuno spiraglio alla riabilitazione del detenuto, ma lo perde definitivamente. Ragiona a lungo su questo anche Salvatore Torre, facendo notare che i progressi fatti nell’ambito del sistema penitenziario non sono ancora sufficienti a riscattare il soggetto dalla povertà in cui è stato troppo a lungo inserito:
Al posto di aprirmi gli occhi sulla condizione di degrado culturale e intellettuale che mi apparteneva, il carcere continuava invece a dichiararsi mio nemico e a offrire così nuove motivazioni alla mia condotta criminale. [...] La verità è che si è lasciati in balia di se stessi, a immiserire nella pigrizia e nell’abbandono. (p. 69)
La lettura procede implacabile mentre ci si rende conto che troppe volte l’amore non basta a salvare, che certi crimini sono troppo violenti per poter essere accettati, ma che la tragedia coinvolge tanto la vittima quanto il colpevole. Nella pratica dell’Atonement, di cui l’autore ci parla continuamente, mettendone in rilievo le diverse sfumature semantiche, un ruolo importante gioca anche la scrittura, come forma di esorcismo e liberazione, in attesa di quella vera di cui spesso si è costretti a disperare:
Cominciai a scrivere, non più per quella vita raccontata dagli atti processuali, trasfigurata dalle dichiarazioni dei miei ex compagni di malavita e dalle mie memorie difensive, ma per quella che viveva prima di quel tempo, che raccontava di un ragazzino e del suo mondo fatto di inquietudine e disarmonia. Cominciai a scrivere per me, per impedire a quella condanna, di cui quella all’ergastolo era soltanto un’appendice, di diventare realmente perpetua. (p. 158)
Attraverso il testo, quindi, sulle parole dei detenuti si solleva forte e chiara quella di Torre, che comprendendo gli altri comprende sempre più a fondo anche se stesso, e riesce ad approdare a una visione della sua sorte tutt’altro che disperata. L’appello sollevato da lui, ma anche da Antonella Bolelli Ferrera e da Monsignor Viganò, è quello all’accortezza, all’apertura, alla prevenzione. Un appello, di fondo, a mantenere viva la nostra umanità anche quando sembra più difficile. Un messaggio, questo, che calza molto bene al periodo natalizio in cui siamo immersi.
Carolina Pernigo
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