Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole
di Vera Gheno
Effequ, 2019
pp. 240
€ 15,00 (cartaceo)
«Qualunque cosa sia stata inventata dopo che abbiamo compiuto 35 anni va contro l’ordine naturale delle cose».
Douglas Adams, Il salmone del dubbio, citato dall’autrice a p. 29.
«La questione femminile», dice Vera Gheno, «non è affatto superata» (p. 14); lo si avverte leggendo i giornali, nella quotidianità e la lingua ne porta con sé spie più o meno evidenti.
Il libro Femminili singolari affronta il tema della declinazione al femminile di molte parole che per generazioni sono state usate esclusivamente al maschile, perché non c’era bisogno di usarle altrimenti; infatti le donne non hanno ricoperto determinati ruoli fino a poco tempo fa e, poiché da qualche decennio succede in modo più frequente, si è posta la questione di declinare le parole che definiscano quei ruoli al femminile, soprattutto quando questo esiste già, sebbene non si sia usato mai, o quasi. È buffo, ma avvocata lo abbiamo sentito riferito unicamente alla Madonna nel testo di una preghiera, eppure di donne che fanno questo mestiere sono pieni i fori; mia madre, che lo è, racconta che non potrebbe farsi chiamare avvocata o avvocatessa, perché in tribunale le donne che fanno questo mestiere vengono spesso appellate dottoresse, a differenza dei loro colleghi uomini.
Il problema è culturale, le parole che usiamo lo raccontano a gran voce, e Vera Gheno ne indaga le ragioni in modo ampio, fornendo al lettore gli strumenti e le nozioni che servono a capire tutti i perché del caso; aiuta a dare sostanza ai propri pensieri sui femminili singolari e, perché no, a cambiare convinzioni personali basate sul sentito dire, sulla cacofonia e altri argomenti che non rientrano tra quelli che fanno sì che una parola entri nell’uso e approdi in un vocabolario.
Se alcune donne che svolgono il mestiere di avvocato devono definirsi al maschile per affermare la propria professionalità – e così le ingegnere, le ministre, le architette e le portiere devono farlo per non disturbare l’orecchio di molti parlanti, quando non anche il proprio –, capiamo che alla base di questa pratica linguistica non c’è solo la cacofonia, ma il fatto che alle donne ci sia voluto più tempo per arrivare a quelle mansioni rispetto ai colleghi dell’altro sesso; perché un tempo le donne non studiavano, ricordiamolo, non votavano, si occupavano principalmente della casa, dei figli e del marito. Anche dopo le guerre mondiali, periodo in cui erano uscite di casa per dare una mano svolgendo diversi mestieri, erano ritornate tra le mura domestiche per riprendere a essere angeli del focolare.
Ma perché porsi il problema dei femminili? Lo spiega l’autrice:
Succede che ciò che non viene nominato tende a essere meno visibile agli occhi delle persone. In questo senso, chiamare le donne che fanno un certo lavoro con un sostantivo femminile non è un semplice capriccio, ma il riconoscimento della loro esistenza […]. E pazienza se ad alcuni le parole ‘suonano male’: ci si può abituare. Pazienza anche se molti pensano siano solo sciocche velleità: le questioni linguistiche non sono mai velleitarie, perché attraverso la lingua esprimiamo il nostro pensiero […]. (p. 17)
Del resto, come fa notare Gheno, ostetrica era un mestiere femminile, ma quando si è trattato di declinarlo al maschile, non ci si è posti il problema.
Da sociolinguista e gestrice di profili Twitter di enti di una certa autorevolezza in campo linguistico, Gheno possiede una perfetta conoscenza degli utenti che ogni giorno usano i social network: ci parla da anni, li osserva e ne scrive; dunque in questo libro raccoglie le opinioni dei parlanti proprio attraverso le piattaforme social, dove ognuno di noi può assistere alle dispute, cogliere umori e modi e dove si può analizzare la lingua scritta di chi discute; l’autrice riporta i commenti integralmente, coglie le principali argomentazioni di chi si mostra restio al cambiamento linguistico e spiega perché non abbiano fondamento, come la cacofonia, l’uso che si è sempre fatto di una parola o la presunta ideologia dietro a una tesi; mette in luce anche gli atteggiamenti che spesso accompagnano questa pratica: la messa in ridicolo di una proposta o la conoscenza superficiale di ciò di cui si sta argomentando.
Dalla lettura dei commenti riportati dall’autrice si evince infatti che non viene minimamente preso in considerazione il fatto che il parere di un esperto della questione possa essere autorevole per porre fine a una disputa basata su un’argomentazione futile: anche di fronte a verità di carattere tecnico gli utenti mostrano spesso un profondo disinteresse, dimostrando di non aver verificato le proprie teorie, sebbene grazie alla rete le fonti più attendibili siano a portata di mano.
Il volumetto è agile e divulgativo: Gheno illustra con chiarezza nozioni sui sostantivi di genere promiscuo, quelli di genere fisso, comune o mobile; chiarisce il ruolo dell’Accademia della Crusca nel dibattito sulla lingua, spiega il meccanismo con il quale si compila un dizionario, racconta di come si aggiunga un’accezione a un determinato termine, affronta il modo in cui la stessa questione si ponga per altre lingue con i dovuti distinguo e come il tema della polisemia influisca sul dibattito; e lo fa scrivendo inoltre di alcuni episodi di attualità legati alla questione, come la polemica che si è creata intorno a Laura Boldrini per la sua battaglia a favore dell’uso dei femminili, o il fatto che Giorgio Napolitano abbia espresso il proprio disappunto rispetto alla cacofonia di alcune parole come sindaca e ministra. Boldrini ha poi commentato dimostrando non solo di aver riflettuto sull’argomento, ma anche di averlo approfondito:
«Il presidente Napolitano ha le sue posizioni che io chiaramente rispetto, ciò detto la società cambia: cambiano i ruoli delle persone, e dunque deve cambiare anche il linguaggio. Qualche decennio fa il problema non sussisteva: le donne facevano certi lavori e non altri. Nessuno mette in discussione che non si possa dire “contadina” o “operaia”, al femminile. E allora anche quando saliamo la scala sociale dovremmo accettare che in una lingua neolatina i nomi si declinano». Fonte: Ilpost.it
Sono innumerevoli gli spunti di riflessione posti dall’autrice, specie sulla questione del cambiamento dell’uso delle parole: molta parte della resistenza a determinati femminili deriva dal fatto che non ci siamo abituati e ci sembra che qualcosa di brutto e cattivo sia venuto a turbare un equilibrio ideale:
«Sfatiamo il mito che l’italiano vada difeso e ‘mantenuto puro’: la ‘purezza della lingua italiana’ non esiste, l’italiano è un crocevia di influssi plurilingui stratificatisi nel corso di secoli e questo, vista la posizione dell’Italia in mezzo al Mediterraneo, è assolutamente inevitabile». (p. 84)
Ne consegue una riflessione su come attraverso le parole si possa attuare un cambiamento della nostra percezione:
«Abbiamo già verificato che assessora o ingegnera sono naturale conseguenza del modificarsi della realtà; ma dal momento che la lingua può anche contribuire a modificare il nostro modo di vedere le cose, l’uso dei femminili può davvero servire per rendere più normale la presenza delle donne in certi ruoli». (p. 131)
Una delle critiche poste sull’uso dei femminili per alcune parole, è quella secondo la quale dietro ci sia una motivazione ideologica, pertanto faziosa e pretestuosa, con punte di fastidio per il movimento femminista, come se dire sindaca significhi voler affermare a tutti i costi la propria parità, sottolineando una disparità di fondo. Scrive Gheno:
«Io non uso i femminili per dimostrare alcuna parità. Li uso perché li reputo naturali».
(p. 100)
Donne e uomini sono diversi, argomenta Gheno, sebbene possano essere pari; questa diversità può essere un valore da coltivare, aggiunge poi. In seguito a queste riflessioni diventa inevitabile affrontare la questione del femminicidio, a naturale completamento del volume.
«Il femminicidio è pur sempre un omicidio, quindi la parola non ha motivo di esistere» ho sentito dire da un giovane avvocato anni fa. E invece, ad avere l’umiltà di consultare un vocabolario, si scopre che la parola indica «uccisione o violenza compiuta nei confronti di una donna, specialmente quando il fatto di essere donna costituisce l’elemento scatenante dell’azione criminosa» (p. 201). Dati ISTAT alla mano, Gheno racconta di come la maggior parte dei femminicidi avvengano per mano di persone legate sentimentalmente alle vittime, sebbene il numero di uomini uccisi in circostanze violente sia maggiore: dunque, mentre gli uomini vengono più spesso assassinati da parte di sconosciuti, le donne che muoiono in modo violento lo fanno perlopiù per mano di partner, ex partner, o parenti. E ciò vale ancora per parlare di una questione culturale, perché spesso la donna viene pensata in termini di possesso, non come essere umano a sé. L’autrice analizza poi il modo in cui determinate testate giornalistiche raccontano i casi di femminicidio, fornendo spesso visioni distorte dell’accaduto; il libro dà spunto per una riflessione sulla funzione degli organi di informazione per il modo nel quale si ricostruisce un evento e come mezzo di diffusione di termini declinati al femminile.
Sono pagine ricche di ironia e lucidità, nonché frutto di un’analisi rigorosa: il libro di Vera Gheno si lascia leggere velocemente e con grande piacevolezza, fa rispolverare nozioni base della nostra lingua così affascinante, complessa e in costante evoluzione, motivi per i quali andrebbe studiata continuamente. Femminili singolari è un invito alla riflessione sul fatto che la lingua è l’espressione della nostra società e che i protagonisti della sua storia sono i parlanti; ma mostra anche quanto il linguaggio possa influire sul nostro modo di osservare un fenomeno; infine, comunica quanto sia stimolante aprire la mente a nuove conoscenze e cambiare la propria prospettiva.
Lorena Bruno