di
Don Winslow
Einaudi,
2019
traduzione di Alfredo Colitto
pp. 928
€ 22 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)
Beh, se avete già affrontato “Il potere delcane” e “Il cartello”, sarete nella stessa condizione di chi si domanda se
andare a vedere l’ultimo “Star Wars”, consapevoli che sarà una cagata pazzesca. Ma non per questo eviterete
di stare seduti tre ore al cinema. Quindi: come rinunciare all’ennesimo
migliaio di pagine di The border? Io, per dire, mi sono pure sciroppato contemporaneamente
al malloppo - il libro, intendo, non i ricavi del traffico di coca - “Narcos” e
“Narcos Mexico”, le serie tv, tanto che adesso, oltre ad avere ripassato un po’
di spagnolo, potrei fare tranquillamente l’agente sotto copertura.
Dove avrà trovato, Winslow, la costanza di
piazzare un altro carico da undici di questa portata? Sommando i capitoli della
trilogia, ci avviciniamo alle tremila pagine. E tutte ruotano attorno alla
sfida eterna, omerica, tra i grandiosi protagonisti: Art Keller, a capo
della Dea, e Adan Barrera, ovviamente più vivo da morto che quando era in
vita. Non è in discussione l’innata capacita di Winslow di avvinghiare il lettore.
Quest’ultimo romanzo, ad avere tempo, si legge in cinque giorni. Dirò di più:
hanno fatto quel volo Londra-Sidney senza scalo, no? Se uno vi fosse salito con
The border, sarebbe arrivato a destinazione in corrispondenza esattamente dell’ultima
pagina. E non si sarebbe accorto di alcunché. Tanto le mani si appiccicano alla
carta, neanche fosse veleno per topi.
Roba “commerciale di qualità”,
potremmo definirla. Con un ossimoro che equivale tipo a “giornalista di nicchia
allargata”, il sottoscritto.
C’è un altro motivo per fare i complimenti: questa trilogia è stata scritta in quasi 20 anni e si è basata su studi e ricerche veramente approfondite. Racconta la guerra più sanguinosa - e lunga - che gli Stati Uniti abbiano mai combattuto: la guerra alla droga. Offre uno splendido spaccato di società contemporanea, tragico e reale, come dimostra l’elenco, purtroppo lunghissimo, dei giornalisti ammazzati in Messico perché facevano il loro dovere. E ai quali viene dedicato anche questo romanzo.
C’è un altro motivo per fare i complimenti: questa trilogia è stata scritta in quasi 20 anni e si è basata su studi e ricerche veramente approfondite. Racconta la guerra più sanguinosa - e lunga - che gli Stati Uniti abbiano mai combattuto: la guerra alla droga. Offre uno splendido spaccato di società contemporanea, tragico e reale, come dimostra l’elenco, purtroppo lunghissimo, dei giornalisti ammazzati in Messico perché facevano il loro dovere. E ai quali viene dedicato anche questo romanzo.
Il Messico è tornato a bagnarsi
di sangue. Un fiume. Adan era l’unico in grado garantire la pax di Sinaloa. Lo
aveva capito pure Art, che pur di sbarazzarsi degli psicopatici fuori di testa
del cartello Los Zetas, aveva stretto il patto con il diavolo. Location: la
giungla del Guatemala. Qui, grazie all’indicibile alleanza Keller-Barrera, Los
Zetas erano stati eliminati. Ma mentre Adan respirava soddisfatto, e strafottente,
l’aria umida delle giungla con i più pericolosi rivali fuori gioco, Art si era
dimenticato dell’accordo e gli aveva piantato due proiettili in faccia. The
border riparte da qui. Art tace a chiunque di questa sua impresa, compresa
l’amata Marisol, e questo fa il paio con la
titubanza dell’autore nel rivelare i fatti in maniera definitiva. Così, per
chi non ha letto “Il cartello”, non è chiaro per un bel po’ cosa sia accaduto
al vecchio Patron.
Credo che Winslow si sia accorto
di questo cortocircuito. Della serie: è probabile che ci sia anche gente che
non abbia sugli scaffali di casa i primi due romanzi e dunque, perché dare
tutto per scontato? Ecco allora che comincia una rincorsa ai fantasmi, leggasi personaggi.
Che è pure una scelta coerente con lo stato d’animo di Art Keller, che non si
dà pace neanche durante una scopata con la moglie. È come se in Winslow scatti l’ansia di riesumare i protagonisti a
lui più cari della saga, per reinserirli da qualche parte, annodare i fili
della trama monstre che oramai si è venuta a creare e fornire un doppio aiuto:
agli aficionados per riprendere
confidenza con Tizio e Caio o con un retroscena del passato e ai novizi per
immergersi nell’immenso affresco del narcotraffico e della corruzione. Ma la
gattina frettolosa, come noto, fece i gattini ciechi.
Stessa cosa per i personaggi
secondari di quest’ultima fatica, le pennellate che dovrebbero permettere di
parlare di capolavoro. Romanzi dentro al
romanzo che presi da soli trasmettono efficacia ma nel contesto complessivo
denotano smagliature. E forzature. In definitiva, più che al tocco finale di
Michelangelo somigliano alle mutande che il povero Daniele da Volterra dovette
infilare ai dannati della Cappella Sistina.
Insomma, leggetelo. Di
armamentario ce n’è in abbondanza: Los Hijos, i rampolli della nuova
generazione a cui è affidata la Federacion, il ritorno delle primule nere, uno dei padrini di una
volta libero dopo trenta anni di galera con la sete di vendetta che uno può immaginare,
pallottole ed efferatezze, la solita donna più feroce di dieci uomini messi
insieme, sogni di bambini che s’infrangono dinanzi alla dura legge dei gringos del Norte, il genero del
presidente degli Stati Uniti, che fa tanto Trump, in combutta con il malaffare
e i narcos fino al collo. Con venature rothiane da “Complotto contro l’America”.
Alla fine del salmo, l’amaro in bocca, a
livello letterario, lo tengo per me. Magari a voi non viene e godrete fulminati
come dopo una sniffata.
Marco Caneschi