di Claudio Sopranzetti, Sara Fabbri
e Chiara Natalucci
add editore, 2019
pp. 215
€ 19,50 (cartaceo)
Ho un ricordo vivido di Bangkok:
nell’aria l’odore di spezie e incensi si mescolava allo smog dei motorini
e delle auto che intasavano le strade; lungo i marciapiedi si affollavano
mendicanti e venditori ambulanti desiderosi di guadagnare qualche dollaro
americano vendendo oggettistica o piatti locali cucinati sul momento in
condizioni igieniche precarie, mentre in alto, sui cavalcavia e le sopraelevate
della città, era possibile vedere thailandesi vestiti in giacca e
cravatta diretti all’aeroporto o nel centro commerciale di uno dei grattacieli
che svettavano sulle casette basse, sui templi, sui mercatini locali. Ovunque
le insegne di Mc Donald’s, Sony e Coca Cola dominavano la scena.
Questa è la Bangkok che ho vissuto, purtroppo in una sola giornata, nel lontano 2015; questa la Bangkok che mi è rimasta
incollata addosso come melassa. E questa è la Bangkok raccontata da Sopranzetti, Fabbri e
Natalucci, che in dieci anni di ricerca antropologica hanno raccolto centinaia
di ore di interviste e, nel 2015, «hanno creato un archivio fotografico e
cinematografico composto da più di 5000 voci con materiali provenienti dalla
Biblioteca nazionale di Bangkok, dall’Archivio nazionale di cinema thailandese
e da alcune collezioni private di storici locali» (p. 7).
Il
re di Bangkok narra la storia di Nok, che nel 1982 da un piccolo paesino
giunge in capitale. Il suo è un po’ il sogno americano di qualsiasi ragazzo, l’idea
di arrivare nel luogo delle grandi opportunità e diventare quello che si è
destinati a essere. Bangkok in quegli anni vive il grande boom
economico, che null’altro è se non la speculazione di capitali stranieri i
quali tentano in ogni modo di artigliare la cultura locale per imporvi il
proprio marchio.
Così, seguiamo il percorso di Nok attraverso
i suoi mille lavori malpagati: operaio in una fabbrica di scarpe, muratore,
taxista, venditore di biglietti della lotteria. Gli alti e i bassi della Thailandia
sono i suoi alti e bassi; la lotta del paese per restare in equilibrio fra il passato
detentore di identità e il futuro portatore di opportunità è la sua lotta per
ricordare da dove viene e chi è stato, ma anche dove vuole andare e chi sarà. Nel
microcosmo di Nok e dei suoi amici e familiari ritroviamo oltre trent’anni di
storia thailandese, di una nazione in bilico fra buddismo e capitalismo.
Le illustrazioni di Sara Fabbri
puntano allo stomaco del lettore, alle sue viscere, al suo ecosistema emotivo.
I disegni sono sporchi e avari di dettagli ma non è quello che conta: ciò che
conta sono i colori, che arricchiscono le tavole e dunque le pagine, le
caricano di significati e di simbolismi. L’uso del colore, giostrato a dovere, consente
di immergersi nell’aria inquinata della città, di perdersi fra i suoi vicoli,
di struggersi per le sconfitte di Nok e del popolo di Bangkok e galvanizzarsi
per le sue vittorie.
Due sono gli elementi visivi che
rendono questo libro indimenticabile. Il primo riguarda la condizione presente
di Nok il quale, sin dalle prime pagine, risulta privo della vista. Il suo è un
mondo fatto di percezioni tattili e sonore e di una memoria visiva che è conservazione di un vissuto. La cecità viene presentata al
lettore come una scala di grigi spesso indefinita, le strade e i vicoli ammassi
labirintici senza identità. Ogni tanto, tuttavia, uno sprazzo di colore emerge
prepotente a indicare una goccia che cade, un motorino che passa, due persone
che parlano. Il colore è l’indicazione della via, è simbolo di vita ed
energia. Il colore è ciò a cui Nok si aggrappa per ricordare a se stesso dov’è
casa, in una sorta di trasformazione sonoro-visiva legata ancora una volta alla
memoria: questo suono appartiene a questo oggetto, e questo oggetto, di cui
adesso ho percezione, per me aveva questa forma e questo colore. Il mondo torna
dunque ad avere un aspetto, a essere fatto di immagini.
Il secondo elemento è per noi
lettori soltanto: fra i grovigli di palazzi che si estendono a vista d’occhio e
coprono tavole intere, creando un senso di claustrofobia e di agorafobia
insieme, là dove i contorni sfumano e tutto si confonde, ecco spuntare, come
nella realtà da me vissuta, gli slogan e i marchi delle multinazionali. La Thailandia,
regno di tradizioni e di una spiritualità impossibile da domare, si è trovata
costretta a convivere con Italthai, Crown, Louis Vuitton. È un capitalismo che
mette radici e prolifica come la gramigna, impossibile da estirpare.
Il resto è storia: le rivolte dopo
il collasso economico, l’ascesa di Thaksin, la guerra intestina che ha
sconvolto la capitale. Il resto è nelle speranze di chi ha lottato ed è morto
per provare a dare ai figli un nuovo volto e nuovi nomi. Tutto si amalgama nelle
pagine di questo graphic novel dolceamaro, risultato eccellente di anni di
lavoro.
David Valentini