Impossibile
di Erri De Luca
Feltrinelli, 2019
pp. 125
€ 13,00 (cartaceo)
€ 9,99 (e-book)
"Non ho odio, rancore, spirito di vendetta. Sono passati decenni, morti di papi, Olimpiadi, il mondo si è rigirato come un guanto. Quel 1900 è un tempo così scaduto da essere incomprensibile a chi è venuto dopo". (p. 57)
Una frase che ha la capacità di racchiudere in sé l'essenza stessa del libro, e non soltanto... bensì anche la storia di due uomini, uno letterario (l'imputato che, nel libro, risponde all'interrogatorio di un magistrato) e l'altro in carne e ossa, lo scrittore stesso, Erri De Luca. La cui voce è perfettamente sovrapponibile a quella del personaggio protagonista.
Parlare di un libro scritto da questo autore è sempre faccenda delicata. De Luca, nella sua seconda vita da scrittore, non ha mai nascosto, né sconfessato, la sua appartenenza a un certo tipo di lotta politica, a quella sinistra extraparlamentare che, negli anni 70 del Novecento (e vedremo quanto questo secolo sia presente in questo libro), si raccoglieva intorno a Lotta Continua. Uguaglianza come mito e rivoluzione armata come metodo. Ogni sua apparizione sui media suscita discussioni perché le sue sono sempre posizioni di un uomo che ha fatto i conti con il suo passato, ma che non ha trovato motivi per abiurarlo, per cambiare se stesso, le sue convinzioni, la sua storia. Non pretende che gli altri lo approvino, ma non accetta che gli altri lo costringano a ripensarsi. Il tutto sempre con questo suo eloquio calmo, moderato... inesorabile.
Ecco perché mi sono avvicinata a questo libro in punta di piedi. Tanto più che "Impossibile" è una vera e propria resa dei conti con il passato, con quel Novecento così complesso da risultare difficilmente comprensibile a tutti coloro che sono arrivati al mondo dopo. Io c'ero, ero piccola e di quegli anni mi ricordo anche la sensazione di paura, i telegiornali che sembravano dare bollettini di guerra, tra gambizzazioni, attentati e rapine. Certo ero lontana dal capire le dinamiche in gioco, ma nemmeno mi interessavano, solo, ogni tanto, mi svegliavo in preda all'incubo che le famigerate BR si appalesassero nel mio cortile. Più tardi mi è venuta la curiosità di capire e di studiarlo questo Novecento, secolo breve che ha visto di tutto.
E il Novecento è il convitato di pietra di questo romanzo. L'altra grande protagonista è la montagna, antica passione di De Luca, napoletano sui generis che si trova più a suo agio tra corde e dirupi che non tra le onde del mare. La storia è semplice: perché il protagonista, l'imputato, si trova sotto interrogatorio? Perché durante una camminata sulla pericolosissima e vertiginosa cengia del Bandiarac (siamo in Val Badia) è successo qualcosa: un uomo è precipitato dal minuscolo sentiero sfracellandosi sulle rocce sottostanti. L'imputato, che camminava a una certa distanza dal malcapitato, sostiene di essersi accorto dell'incidente soltanto dopo aver raggiunto il punto da cui l'uomo è precipitato e di aver chiamato subito, ma inutilmente, i soccorsi.
A mettere in dubbio questa testimonianza c'è il fatto che, in realtà i due uomini si conoscevano, anzi erano stati amici per il sangue ("perché la pelle è superficiale", p. 74), erano stati entrambi compagni di lotta armata, avevano condiviso alloggi, forse donne, rapine. Poi uno dei due aveva commesso il passo fatale, il tradimento. Sconfessando i suoi anni rivoluzionari, aveva "cantato" i nomi dei suoi compagni, facendoli arrestare e condannandoli a decenni di galera. Compreso l'amico più vero, quello che camminava dietro, a distanza, sulla cengia del Bandiarac. Per caso. Quarant'anni dopo. Senza essersi mai più incontrati prima. Che cosa li ha portati sullo stesso pericolosissimo sentiero? Una coincidenza? Impossibile, secondo il magistrato. Il quale, nell'incidente vede soltanto una resa dei conti, una vendetta consumata fredda. Molto fredda. Ecco allora che il romanzo parte con l'interrogatorio. Da una parte c'è l'imputato, uomo ormai quasi anziano, ma sportivo, in forma, grande camminatore e amante della montagna. La sua è una lunga storia, ha passato nelle carceri anni di isolamento, che gli hanno consegnato tanto tempo per riflettere e per rinsaldarsi sulle sue posizioni, quelle che l'avevano portato da giovane ad abbracciare la lotta armata. Dall'altra c'è un magistrato giovane, che il Novecento l'ha soltanto studiato, forse ne ha vissuto gli ultimi anni, ma di certo non può conoscere di prima mano quanto è successo e perché.
Il magistrato è convinto che l'imputato sia colpevole, non gli pare verosimile che i due non si siano più incontrati per quarant'anni e che si siano rivisti per caso proprio su quella roccia (anzi, secondo l'imputato nemmeno rivisti perché questi asserisce di aver saputo chi era l'uomo caduto soltanto dopo). Le domande servono al magistrato a chiedere conferma di quello che lui è convinto di sapere già. Le risposte dell'imputato, invece, scavano nel passato, gettano luce su punti oscuri, disegnano una coscienza salda, ferma. A poco a poco qualcosa cambia e quello che era un interrogatorio diventa un dialogo tra due età diverse, tra due mondi lontani, tra due porzioni di storia distanti. E lo scontro diventa generazionale, coinvolge il modo di concepire l'impegno politico, il metodo di condurre le indagini (e qui esce il passato di De Luca, le sue convinzioni, che restano discutibili, ma che fanno parte di lui, della sua storia, della sua pelle). L'interrogatorio diventa una partita a scacchi, di fronte due uomini che si guardano negli occhi e, senza mai alzare la voce, si sfidano. Uno dei due vincerà.
Nel frattempo però le parole gettano un ponte, non saldo abbastanza perché i due possano stringersi la mano, ma un oscillante ponte tibetano, fatto di corde che vibrano nell'animo. Perché il libro è proprio questo, una lenta discesa nelle profondità dell'animo umano. Una scalata al contrario.
Come definire questo libro? Un romanzo? Sì, anche se la struttura è sui generis: l'intera narrazione è infatti composta da una continua alternanza tra l'interrogatorio, che è la parte principale, la più bella per me, e sette lettere d'amore che l'imputato scrive alla sua compagna, conosciuta dopo, estranea al tempo della gioventù e della lotta, lettere non spedite in cui l'imputato mette a nudo se stesso.
Non svelo ovviamente chi vince e come finisce, ma non è importante perché questo non è un libro giallo, non c'è il climax, la tensione verso l'epifania finale.
Non importa come si siano svolti i fatti veramente, se si arriva a una verità processuale (p. 97)
dice il magistrato a un certo punto per stanare la confessione. Per farsi spiegare come sia diventato possibile l'impossibile. E se anche noi non conosciamo nulla di questi due uomini, nemmeno il nome, eppure dalla sequenza di domande e risposte (riportate tra l'altro con i caratteri delle macchine da scrivere di un tempo, in puro stile "questurino") ce li raffiguriamo, li immaginiamo, indoviniamo il timbro delle loro voci, il modo di stare seduti, lo sguardo fisso in quello dell'altro. La loro faccia, che racchiude la loro storia.