di Edoardo Nesi
La nave di Teseo, 2019
pp. 263
€ 18 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
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E all’improvviso ricompare Vittorio Vezzosi. Edoardo Nesi
ha questa sorta di innamoramento per
i suoi personaggi, così il bambino che piange in una spiaggia all’inizio de
“L’estate infinita” ce lo ritroviamo «trentenne magro dagli occhi famelici» trapiantato nelle foto del suo anno di grazia: il
1995. Dunque, deducendo che la nascita è avvenuta nel 1965, tutto torna perché fa
le bizze - ricordate? - nella Versilia del 1972.
A pagina 169 di questo libro, ecco poi l’epifania: lo stesso
Vittorio Vezzosi racconta infatti che suo
padre lo chiamavano il Bestia. E allora a chi se non a lui, allo strepitoso
Cesare Vezzosi, protagonista del bel romanzo precedente, viene da pensare? Il
primo dei due imprenditori
caciaroni, il secondo è Ivo Barrocciai, figli di uno dei tanti
distretti toscani dove la manifattura ha preso il posto della mezzadria. E giù,
soldi che schizzano di qua e di là come le Vespe della Piaggio (Pontedera). Ne
“L’età dell’oro” un’altra
opera di Edoardo Nesi del 2004 era Ivo Barrocciai il mattatore.
Tutta questa pappardella iniziale per dire
che mai mi sarei aspettato Vittorio Vezzosi ridotto, anzi assurto alla
condizione di scrittore mitologico. Nel 1995, infatti, ha dato alle stampe “I lupi dentro” di cui non si riesce a
capire dove sia andato a parare, quali corde abbia toccato, quali argomenti
sviscerato, quali protagonisti reso immortali. Ci deve bastare che ha segnato
una generazione. E i figli di quella generazione continuano e leggerlo come non
ci fosse un domani. Chi non lo ha fatto e, si presume, neanche lo farà, è Emiliano
de Vito, nato nel 1997, laureato a Roma in lettere antiche, in pari con gli
anni, con una tesi che ha ottenuto la summa
cum laude. Siamo nel 2019 ed è alle porte un’immensa fiera a Milano giunta
alla decima edizione: SuperVintage19, che propone oggetti degli anni Ottanta e
Novanta. È quasi 25 anni che di Vittorio Vezzosi non si hanno quasi notizie.
Per questa occasione, l’autore del
capolavoro a cui non è seguito alcunché, tipo il Jep Gambardella di Sorrentino,
decide di interrompere lo splendido isolamento, Salinger, McCarthy… decidete in
libertà. Ma c’è un motivo più che valido e ha poco a che vedere con l’annuncio
del secondo romanzo agognato dall’editore. Lo accompagnerà da Firenze a Milano, Emiliano Zapata
de Vito, diventato suo assistente personale, condizione indotta da altri soggetti,
subito ribattezzato come il guerrigliero messicano.
A Milano, incontro alla nostalgia, i due -
Don Chisciotte e Sancho? Fate voi - vanno con una jeep americana che, in quanto
a tecnologia, estetica e soprattutto consumi, è un inno a questo sentimento:
roba da Grande Gatsby, uno dei ricorrenti riferimenti letterari. L’altro è “Sotto il vulcano” di Malcolm Lowry. Grazie
all’on the road - anche in Kerouac vagabondavano in coppia - incontriamo le
pagine più spettacolari, con sosta intermedia bolognese indemoniata, e
cinematografica, e pare di viaggiare da Omaha a Tucson, non di scollinare l’A1
all’altezza di Pian del Voglio. Se in ogni libro ci sono, è auspicabile, le parti
da amare, bene, ne “La mia ombra è tua” sono esattamente queste.
Il rapporto tra Vittorio Vezzosi ed
Emiliano parte sotto i peggiori auspici, le prime righe lo testimoniano
umoristicamente ma è soprattutto il successivo sfogo di Emiliano che rischia di
far precipitare la situazione. Il giovane rimprovera al vecchio, insomma…
neanche troppo, questo privilegio che la
generazione dei Sessanta può coltivare: la nostalgia. Un’autentica perdita
di tempo, rispetto ai problemi che i ventenni devono affrontare. E qui il
discorso si fa serio. Perché oggi Edoardo Nesi può sentirsi dire lo stesso per
esempio da un figlio, oppure può averlo rinfacciato in prima persona al suo di
padre, quando era il momento. O ancora, Nesi, che è coetaneo praticamente di
Vezzosi e guarda caso ha esordito nel 1995 - “Fughe da fermo”, Bompiani - si
sente rappresentato da entrambi.
E se da una parte, diciamo quella dettata
dall’anagrafe, può declinare verso stati d’animo attaccati ai ricordi - non c’è
nulla di male, lo facciamo tutti e se la modernità è quella degli influencer
del web verrebbe da tornare, non dico ai piccioni viaggiatori, ma almeno ai
classici latini - dall’altra è un conoscitore del nostro Paese, uno scrittore
che ha fatto il suo percorso e non può bastargli uno sguardo retrospettivo.
Bisogna evitare strabismi di maniera, per essere uomini del presente in grado di denunciarne le mercificazioni e le assurde
dinamiche di massa. Se poi un carattere scorbutico e indignato è utile a
preconizzare qualche tendenza futura… visti i tempi, non si butta via niente. Inoltre,
a me piacciono i guizzi linguistici toscaneggianti. Stavolta però con una
tiratina di orecchie: «googlarlo» a pagina 24. A parte che nel provare a
pronunciarlo mi si attorciglia la lingua, diciamo che manco su Facebook vorrei leggerlo.
Il romanzo è poi una riflessione sulla
forza della scrittura, in un’alternanza tra ammicchi poco convinti sulla sua
capacità di cambiare il mondo, doverosi omaggi a scrittori suicidi - con
l’incomprensibile refuso di pagina 259 su Cesare Pavese che «si uccise… a Roma», quando invece si
tolse la vita all’albergo Roma, qualcosa c’entra, però di Torino - e la potenza che i
testi riescono a celare. Qualità
che nasce da una domanda: perché si devono leggere una volta sola? Perché non
anche semplicemente riaprirli, ogni tanto, se non per portarli in fondo per
scovare una frase sfuggita? Tipo quella di Lowry che ha, giustamente, folgorato
Nesi e che si trascina nel titolo. La grande letteratura è veramente lo
strumento per saldare le dimensioni del tempo.
E dopo tutti questi discorsi, in un finale però a mio
giudizio affrettato - davvero un peccato - non poteva mancare l’amore. Non quello maturo da
cinquantacinquenni per l’istituzione familiare, buono giusto per una
figlia, bensì quello ingenuo e irresponsabile. Che può risvegliare, è così, poche
ciance, solo una donna che ti ha scavato dentro come un tarlo. Questo
espediente serve per varie cose: per ricordare come un’attrazione molto fisica,
magari recuperata per miracolo e che porta a sudare come forsennati, sia pur
sempre un gradito sostituto di quelle storie intellettualoidi trascinate, da
cui non si cava un ragno dal buco. Per ricomporre in nome dell’entusiasmo le
tante caratteristiche, perfino fisiche, del Vezzosi. Come opposto narrativo
della filippica iniziale di Emiliano contro la nostalgia: sì, ce ne sarà pure
un abuso ma avendo a che fare con l’ennesima strafica dei libri di Nesi è
giusto concederle una piccola rivincita.
Marco Caneschi