Storia della nostra scomparsa
di Jing-Jing Lee
Fazi Editore, 2020
Traduzione di Stefano Tummolini
pp. 419
€ 17,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
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€ 9,99 (ebook)
Ribattezzarono l'isola Syonan-to e spostarono l'orologio un'ora avanti, per farci aderire al fuso di Tokyo. Noi che abitavamo lontano dal centro quasi non ci accorgemmo della differenza. Ci cambiarono giusto la moneta. La bandiera. Cose senza importanza.(pp.94-95)
Dopo l'attacco di Pearl Harbor, il Giappone scatenò un'offensiva nel Pacifico. Punto nevralgico della conquista era l'isola di Singapore, sotto il controllo inglese.
Wang Di è una ragazzina quando la guerra comincia. Nata in una famiglia povera di Singapore, non voluta in quanto femmina, senza alcun tipo di istruzione, aiuta la famiglia come può. Il suo unico orizzonte è dato dalla possibilità di sposarsi. Ma la conquista giapponese fa precipitare tutto il sistema dell'isola. I cinesi vengono sistematicamente rastrellati: gli uomini vengono uccisi, le donne raccolte per diventare delle "donne di conforto". Un nome dolce, pieno di bontà per indicare un destino al di là di ogni immaginifico orrore: quello di diventare prostitute al servizio dell'esercito occupante.
«Senti, vuoi guadagnare un po' di soldi? Yan Ling mi ha detto che cercano altre cameriere. Ho sentito dire che hanno messo un annuncio sul "Syonan Time". Cercano ragazze tra i diciassette e i ventotto anni. Tu ne hai diciassette, giusto?» (p.120)
La guerra, nella divisione storica dei ruoli, è affare maschile. A parte alcune figure specifiche e sfumate di leggenda come le Amazzoni, sono gli uomini ad andare in guerra mentre le donne restano a casa. Eppure, la Storia ci insegna che non c'è categoria che più ha da perdere dalla guerra delle donne. Siano esse madri, mogli, fidanzate o sorelle, sono le donne quelle che devono attendere con trepidazione notizie dei loro cari e, in caso di perdita, affrontare le conseguenze di una vita gravata dal lutto. In caso di occupazione, devono sottostare ai voleri e agli ordini dell'esercito invasore.
Perché Storia della nostra scomparsa, primo romanzo dell'autrice singaporiana Jing-Jing Lee, che prende l'avvio dalle vicende autobiografiche della sua famiglia, narra una storia sconosciuta ai più. Nei nostri frettolosi studi liceali sulla seconda guerra mondiale, l'area del Pacifico viene spesso sorvolata. Che Singapore sia stata la peggiore sconfitta dell'esercito britannico durante il conflitto, non è cosa che si trova su tutti i testi. Ma anche se la storia nello specifico è poco nota, il destino delle donne costrette a vivere in un territorio conquistato e occupato è fin troppo prevedibile.
Il romanzo si orienta su tre linee. Quella di Wang Di giovane, narrata in prima persona, che racconta del suo rapimento e del suo servizio come "donna di conforto" nella casa bianca e nera, un bordello riservato alle truppe giapponesi e dei legami di amicizia che stringe sperando di sopravvivere a quell'inferno. Wang Di nel presente, ormai vecchia e vedova; ancora nel presente, il giovane Kevin che, a seguito della morte della nonna, trova delle lettere che riportano ai tragici anni dell'occupazione e gettano nuova luce sulle origini della sua famiglia.
Se le due linee del presente incentrate sul superamento del passato e il ritrovarsi della famiglia sono coerenti e anche abbastanza prevedibili nel loro sviluppo, è di certo la parte della giovinezza di Wang Di quella che più smuove i sentimenti del lettore. Ma non solo per l'inevitabile tormento del destino delle ragazze reclutate.
Il profondo orrore che sono costrette a vivere è dato dai dettagli. Non ci sono eclatanti o disturbanti descrizioni di quanto le ragazze erano costrette a subire: è un ovvio orrore che non avrebbe senso descrivere. L'orrore è dato dai dettagli che disseminano la narrazione con una tale abilità da arrivare pungenti all'occhio del lettore. Racconta Wang Di della sua prima settimana nella casa del bianco e del nero
Sentivo il tintinnio delle monete mentre si frugavano in tasca in cerca di spiccioli, per poi consegnarli a Mrs Sato in cambio delle marchette - dei quadratini di carta rosa - che poi gettavano a terra appena entravano nella mia stanza. Io le raccoglievo tutte e a fine giornata le consegnavo a Mrs Sato. Un giorno, durante la prima settimana, ero rimasta al centro della stanza a pensare all'unica parata con le stelle filanti che avevo visto da bambina, a quel caos di colori. Poi m'ero inginocchiata e avevo raccolto tutti i fogliettini rosa, contandone quarantadue. (p.196)
o ancora della routine che condivideva con Jeomsun, una sua compagna di prigionia.
si lamentava mentre lavava i preservativi usati nel lavandino - come dovevamo fare ogni mattina. (p.189)
o l'accumulo di qualunque cosa possa essere utile a sopravvivere: carte di caramella, mandarini rinsecchiti, avanzi di riso. Mania che non l'abbandonerà nemmeno da vecchia.
Ma non bisogna fare l'errore che la scomparsa di cui parla il titolo sia riferita solo al rapimento delle ragazze. Perché il loro scomparire arriva da più lontano e si sviluppa su più livelli. Prima di tutto, e a livello più evidente, parliamo dell'aspetto fisico. Prostrate dal regime alimentare da fame, le ragazze vengono sostituite con frequenza. Ma è la loro identità a subire l'attacco più violento. Wang Di porta un nome fatto apposta a ricordarle che non era la progenie che i genitori avrebbero voluto: il suo nome significa infatti "speranza di un fratello". Nome che le viene portato via quanto arriva nella casa del bianco e del nero e viene rimpiazzato dal più nipponico Fujico. Nome che, in qualche modo, ha una sua utilità per aiutarla a estraniarsi dall'orrore quotidiano.
Al mattino, era Fujiko che premeva le labbra su quel cartoncino per tingerle di rosso e che indossava quei vestiti troppo grandi per lei. Era Fujiko che raccoglieva le marchette e le infilava sotto lo stuoia prima di sdraiarcisi sopra. (pp.194-195)
Il suo rientro a casa, contro ogni aspettativa e speranza, non le renderà la dignità di essere una persona perché il suo passato l'avrà rovinata del tutto sia fisicamente, e la costringerà a subire un'isterectomia, sia come reputazione tanto che nemmeno il fratellino riesce a trattenersi e le urla che avrebbe preferito che fosse morta. Non persona prima, in quanto femmina nella società cinese, e non persona dopo, in quanto oggetto usato dagli odiati occupanti giapponesi.
Una storia sconosciuta che parla di un meccanismo anche troppo noto, vecchio come il desiderio di espansione territoriale dell'uomo. Un romanzo che affida ai dettagli il compito di raccontare un orrore a stento immaginabile e che concede un sospiro di sollievo alla fine, con un finale che riannoda e ripaga i debiti del passato e riaccende le braci di una speranza che nessuna donna di conforto che sia mai tornata per raccontare ha permesso che si spegnesse.
Giulia Pretta