T.
Singer
di Dag Solstad
traduzione di Maria Valeria D’Avino
Iperborea, 2019
pp. 247
€ 17,00 (cartaceo)
In biblioteca, Singer svanì quasi subito nel suo lavoro, come si aspettava e sperava di fare. In fondo era venuto a Notodden per vivere in incognito sotto il suo vero nome, sì, ma di nascosto dai trentaquattro anni di vita vissuta fino a quel momento, che gli si erano incollati addosso. Se li era lasciati alle spalle e sperava che non tornassero a disturbarlo. (p. 88)
Certe esistenze non bramano la gloria
dell’arte o le gesta eroiche del martirio, né una sfavillante carriera politica
o emozioni illimitate. Certe esistenze desiderano solo restare in disparte,
lontano dal mondo, vivere di gesti quotidiani e immediati, di routine
tranquillizzanti, certezze assolute. Un lavoro semplice, una famiglia, poco
altro.
È la scelta di Singer, la cui vita
interiore – pur così ricca da soffermarsi su ogni singolo evento che non passa
inosservato ma anzi si ingigantisce e diventa memorabile, eroico, soverchiante –
resta celata a tutti, e non per caso. La vita di Singer, sin dagli albori, è
segnata da eventi che normalmente si percepirebbero come insignificanti,
ad esempio lo sguardo di un parente neanche troppo vicino che ci ha sorpresi a fare
una smorfia strana; eppure per Singer questi eventi insignificanti restano
impressi nella memoria al punto da tornare a turbargli le notti e i giorni
anche ad anni di distanza.
Tutto ciò che accade, o quasi,
accade nella sua mente: Singer è prigioniero dei propri pensieri, «del suo
labirinto, dal quale non poteva uscire e neppure lo voleva, forse appunto
perché non poteva» (p. 133); Singer è prigioniero di una mente che non sa, o forse
non vuole, comunicare con l’esterno, come se ciò che avviene nelle pareti
insonorizzate della sua mente fosse per lui e per lui soltanto. Certe esistenze, appunto, amano farsi piccole, insignificanti,
invisibili, quasi-non-esistenze.
Eppure gli eventi accadono anche
fuori. Per quanto si possa tentare di lasciare fuori il mondo, e con esso tutte
le persone che lo abitano, è inevitabile interagire con altri esseri umani a
meno di non rifugiarsi in un eremo. E sì, la biblioteca di Notodden è un luogo
silenzioso e lontano, ma non abbastanza. Prima o poi si incontra qualcuno,
prima o poi ci si innamora di qualcuno. E cosa fare dunque quando le cose
evolvono rapidamente, quando le persone entrano a far parte della propria vita
nonostante tutto; cosa fare quando quelle persone, entrate nella routine
quotidiana, ne escono improvvisamente lasciando dietro sé un bagaglio emotivo? È
possibile tornare a quella precedente condizione di quasi-non-esistenza?
Singer è un personaggio peculiare:
non ha qualità che lo rendano degno di essere al centro di un romanzo, Solstad
stesso a volte rompe la quarta parte per rivolgersi al lettore e in qualche modo scusarsi
di averlo scelto, perché è obiettivamente né più né meno interessante di altri
personaggi che avrebbe potuto creare, eppure è lì, al centro di una storia in
cui accade poco e niente. È un personaggio peculiare, tuttavia, perché la
sua vita interiore, nonostante un mancato contatto col mondo, ha saputo creare
un sistema di valori che in qualche modo lo guida nelle scelte quotidiane.
E sebbene l’imperativo categorico
sia quasi sempre “sparire dall’esistenza”, quando arriva il momento di prendere
una decisione fondamentale – portare con sé la figlia della defunta moglie o
meno – egli agisce secondo un modello morale che al lettore resta oscuro,
nonostante Solstad ci faccia entrare direttamente nella mente del suo
personaggio in un bellissimo dialogo immaginario fra Singer stesso e un suo
conoscente. Assistiamo, nelle pagine 144-157, a una conversazione così
realistica, nel suo essere inventata dal protagonista stesso, da rimandare a
quei botta e risposta che chiunque, nella quotidianità, ricrea da solo sotto la
doccia o prima di andare al letto; sono botta e risposta che di solito
precedono una decisione importante quando, esaurite le conversazioni reali con
gli amici e i familiari, si compie un ultimo disperato tentativo di venire a
capo di un nodo che non si riesce proprio a sciogliere. E come noi, Singer
quell’amico lo invita «come amico immaginario, perché se l’unica cosa che gli
impediva di chiamarlo era che non erano tanti amici nella vita reale, poteva
benissimo invitarlo in qualità di amico immaginario» (p. 146). Ma la scelta di
accollarsi i bisogni e le necessità di una bambina per un mero imperativo
morale può essere la decisione giusta per uno come Singer, uno «prigioniero
della propria essenza […] permeato dall’esistenza» (p. 213), uno che desiderava
solo scomparire «senza lasciare traccia da tutto quello, o quelli, da cui
voleva scomparire, gli sembrava, e sentiva un profondo senso di soddisfazione
nel cuore» (p. 118)?
T.
Singer è il romanzo sul solipsismo esistenziale per eccellenza, e affonda le
radici, estremizzando un personaggio già estremo di suo, in quella zona oscura
della personalità umana in cui non arriva, neanche di riflesso, la luce dei
bisogni sociali che tanto sono a fondamento di una qualsivoglia comunità. È la
zona oscura di un io distaccato da tutto e tutti, che anela alla solitudine,
brama tutto ciò che non riguarda il prossimo: è la tana profonda e
inaccessibile dell’animale umano, quell'aspetto di noi che a volte ci fa paura.
David Valentini