Uomini di poca fede
di Nickolas Butler
Marsilio, gennaio 2020
Traduzione di Fabio Cremonesi
pp. 272
€ 17 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
€ 9,99 (ebook)
Da dove cominciamo per parlare in maniera ragionata di Uomini di poca fede, l’ultimo romanzo di Nickolas Butler? Non dalla trama, che rischierebbe – ingiustamente – di allontanare il lettore con i suoi riferimenti a tematiche come la fede, le piccole comunità dell’America rurale, strane chiese radicali, fratture, lutto e drammi famigliari. Non dai riferimenti a eventi reali cui la vicenda è ispirata, che hanno sconvolto una piccola comunità del Wisconsin, nel 2008. Non dalla scrittura, sorprendentemente più asciutta, misurata, diversa da quanto di Butler letto finora, perfettamente adatta alla voce del protagonista, il buon vecchio Lyle Hovde, dal ritmo piano della vicenda, il susseguirsi delle stagioni mentre la vita scorre e muta, la narrazione che si fa via via più incalzante, fino al finale sorprendente.
La verità è che proprio da queste cose era necessario partire, per cercare di inquadrare l’ultimo lavoro di Butler, a mio parere uno degli autori americani più interessanti della sua generazione. La voce italiana scelta questa volta è l’ottimo Fabio Cremonesi, sempre attento a non tradire il testo e restituirlo al lettore in tutta la sua purezza, che si dimostra ancora una volta l’interprete ideale di questi cantori dell’America rurale, le parole più o meno scarne ed essenziali, attento al ritmo, ai tecnicismi. E l’altra verità è che amo Nickolas Butler, a partire da quella meraviglia di Shotgun Lovesongs con cui esordì nel 2013, una ballata sull’amicizia maschile tra paesaggi carichi di lirismo struggente, e da allora mi fido di questo scrittore come mi fido di Haruf, Strout, Offutt, solo per citarne alcuni. Non mi aveva convinta davvero fino in fondo con il romanzo precedente, Il cuore degli uomini, da cui mi aspettavo qualcosa di più ancora, ma con questo ultimo lavoro conferma il proprio talento nel raccontare i dubbi, le difficoltà, i silenzi, degli uomini e delle piccole comunità in cui si muovono, non semplice sfondo ma realtà concreta e partecipe della vicenda, che imprime sui propri abitanti un determinato ritmo e sentire.
Butler racconta una storia personale che a tratti sa farsi universale, come i dilemmi che si pone e ai quali non concede risposte, lasciando al lettore la libertà di cercarle da sé, forse trovandole o più probabilmente no perché è passato il tempo delle certezze assolute, dell’arroganza giovanile, e siamo consapevoli ormai di quanto il mondo e le relazioni siano complessi, impossibili da definire in maniera assoluta e statica. La perdita delle certezze, la consapevolezza anzi che la vita è fatta di milioni di sfumature e che il tempo è la cosa più preziosa e fragile, sfuggevole, danno il senso dell’età adulta.
Ritroviamo in Uomini di poca fede molte delle tematiche care a Butler: la comunità, coesa e partecipe della vita dei propri abitanti, l’amicizia maschile – un filone di recente ripreso da diversi autori, dopo anni in cui pareva una tematica poco interessante – , la vita ordinaria e i ritmi della natura, il valore della semplicità nei modi quanto nei desideri, l’asprezza del lavoro manuale e il confronto con la natura. E, ancora, lo sguardo clemente e fiducioso sull'uomo, che inciampa, si perde ed è preda del dubbio, ma ha intorno a sé una comunità in cui trovare conforto, forse non piena comprensione ma la consolazione di non essere solo. Per raccontarle, sceglie questa volta una lingua un poco più scarna e asciutta, che è quella di Lyle, regalando al lettore però almeno un paio di passi pieni di un lirismo struggente.
Al cuore di questa vicenda c’è la storia intima e condivisa di una famiglia, di Lyle e della moglie Peg, che si confrontano con il dolore per la perdita di un figlio – avvenuta tantissimi anni prima, ripercorsa nel ricordo di Lyle – , il miracolo dell’adozione di Shiloh e, poi, la nascita del nipote Isaac, i dubbi e le umanissime difficoltà del rapporto genitori-figli, il contrasto generazionale, l’amore incondizionato complicato dal peso della responsabilità e le distanze, i silenzi che talvolta sembrano impossibili da colmare. E, su tutti, la riflessione intorno alla fede, motore della storia: quella di un uomo, messa in dubbio dalla perdita del figlio, quella di una giovane donna, sulle cui fragilità e insicurezze si insinua il radicalismo religioso. Al punto, da mettere in pericolo la vita del piccolo Isaac. I rapporti si fanno sempre più tesi e precari, il riavvicinamento di Shiloh dopo l’arrivo del bambino è messo in serio pericolo dal bigottismo sempre più radicato in lei e, soprattutto, dalla presenza del carismatico leader della congrega a cui la ragazza si è unita. Steven, fervente predicatore o meschino opportunista? Lyle e Peg sono disposti a tutto pur di non perdere Shiloh e il nipotino, perfino ad avvicinarsi a quella chiesa, a mettere da parte i propri dubbi sulla fede, ignorare l’arroganza del pastore, sforzandosi di capire la figlia e il suo mondo. Difficile, per Lyle, avere ancora fede dopo la perdita del proprio bambino, venire a patti con un Dio che strappa un neonato dalle braccia dei genitori, creando una frattura nel suo sistema di valori «come se in lui la volontà di credere, l’energia per credere si fossero indebolite». Si interroga, ora più forte e con più urgenza di prima, sul mistero della fede e, insieme a lui, gli amici più intimi con cui si confronta.
La verità è che proprio da queste cose era necessario partire, per cercare di inquadrare l’ultimo lavoro di Butler, a mio parere uno degli autori americani più interessanti della sua generazione. La voce italiana scelta questa volta è l’ottimo Fabio Cremonesi, sempre attento a non tradire il testo e restituirlo al lettore in tutta la sua purezza, che si dimostra ancora una volta l’interprete ideale di questi cantori dell’America rurale, le parole più o meno scarne ed essenziali, attento al ritmo, ai tecnicismi. E l’altra verità è che amo Nickolas Butler, a partire da quella meraviglia di Shotgun Lovesongs con cui esordì nel 2013, una ballata sull’amicizia maschile tra paesaggi carichi di lirismo struggente, e da allora mi fido di questo scrittore come mi fido di Haruf, Strout, Offutt, solo per citarne alcuni. Non mi aveva convinta davvero fino in fondo con il romanzo precedente, Il cuore degli uomini, da cui mi aspettavo qualcosa di più ancora, ma con questo ultimo lavoro conferma il proprio talento nel raccontare i dubbi, le difficoltà, i silenzi, degli uomini e delle piccole comunità in cui si muovono, non semplice sfondo ma realtà concreta e partecipe della vicenda, che imprime sui propri abitanti un determinato ritmo e sentire.
Butler racconta una storia personale che a tratti sa farsi universale, come i dilemmi che si pone e ai quali non concede risposte, lasciando al lettore la libertà di cercarle da sé, forse trovandole o più probabilmente no perché è passato il tempo delle certezze assolute, dell’arroganza giovanile, e siamo consapevoli ormai di quanto il mondo e le relazioni siano complessi, impossibili da definire in maniera assoluta e statica. La perdita delle certezze, la consapevolezza anzi che la vita è fatta di milioni di sfumature e che il tempo è la cosa più preziosa e fragile, sfuggevole, danno il senso dell’età adulta.
Ritroviamo in Uomini di poca fede molte delle tematiche care a Butler: la comunità, coesa e partecipe della vita dei propri abitanti, l’amicizia maschile – un filone di recente ripreso da diversi autori, dopo anni in cui pareva una tematica poco interessante – , la vita ordinaria e i ritmi della natura, il valore della semplicità nei modi quanto nei desideri, l’asprezza del lavoro manuale e il confronto con la natura. E, ancora, lo sguardo clemente e fiducioso sull'uomo, che inciampa, si perde ed è preda del dubbio, ma ha intorno a sé una comunità in cui trovare conforto, forse non piena comprensione ma la consolazione di non essere solo. Per raccontarle, sceglie questa volta una lingua un poco più scarna e asciutta, che è quella di Lyle, regalando al lettore però almeno un paio di passi pieni di un lirismo struggente.
Al cuore di questa vicenda c’è la storia intima e condivisa di una famiglia, di Lyle e della moglie Peg, che si confrontano con il dolore per la perdita di un figlio – avvenuta tantissimi anni prima, ripercorsa nel ricordo di Lyle – , il miracolo dell’adozione di Shiloh e, poi, la nascita del nipote Isaac, i dubbi e le umanissime difficoltà del rapporto genitori-figli, il contrasto generazionale, l’amore incondizionato complicato dal peso della responsabilità e le distanze, i silenzi che talvolta sembrano impossibili da colmare. E, su tutti, la riflessione intorno alla fede, motore della storia: quella di un uomo, messa in dubbio dalla perdita del figlio, quella di una giovane donna, sulle cui fragilità e insicurezze si insinua il radicalismo religioso. Al punto, da mettere in pericolo la vita del piccolo Isaac. I rapporti si fanno sempre più tesi e precari, il riavvicinamento di Shiloh dopo l’arrivo del bambino è messo in serio pericolo dal bigottismo sempre più radicato in lei e, soprattutto, dalla presenza del carismatico leader della congrega a cui la ragazza si è unita. Steven, fervente predicatore o meschino opportunista? Lyle e Peg sono disposti a tutto pur di non perdere Shiloh e il nipotino, perfino ad avvicinarsi a quella chiesa, a mettere da parte i propri dubbi sulla fede, ignorare l’arroganza del pastore, sforzandosi di capire la figlia e il suo mondo. Difficile, per Lyle, avere ancora fede dopo la perdita del proprio bambino, venire a patti con un Dio che strappa un neonato dalle braccia dei genitori, creando una frattura nel suo sistema di valori «come se in lui la volontà di credere, l’energia per credere si fossero indebolite». Si interroga, ora più forte e con più urgenza di prima, sul mistero della fede e, insieme a lui, gli amici più intimi con cui si confronta.
«Non ho mai capito la religione organizzata» disse Otis dopo un po’. «Sii una brava persona. Non ferire il prossimo. Non truffare. Non essere avido. Mi sembra piuttosto semplice. Non ho bisogno di una stupida guida turistica per rimanere sulla retta via. O di una serie di pietre incise da un fulmine. O di qualche ricompensa in paradiso. Non ho bisogno di dedicare a questo un giorno della settimana in particolare. Tutte le nostre giornate sono importanti, dalla prima all’ultima. Invecchiando diventa sempre più chiaro» (p. 97)
È uno dei passi più interessanti sull’argomento, immediato nella sua semplicità e che da subito il senso del personaggio e del sistema di valori in cui crede Otis, tra le più intime conoscenze di Lyle.
Mentre i segnali di pericolo per la situazione di Isaac si fanno allarmanti, il mondo intero di Lyle viene messo in discussione, il discorso sulla fede e i propri dubbi si aprono a nuove considerazioni e quei piccoli punti fermi – l’amicizia di tutta una vita, la consolante regolarità del lavoro, la stabilità di un matrimonio che dura da quarant’anni – sembrano vacillare, forse irrimediabilmente.
La storia di Lyle è la storia di un uomo che si interroga, dei dubbi e delle domande a cui difficilmente sappiamo dare una risposta certa ma che siamo spinti a porci. E di un padre, che non sempre sa dare voce ai propri sentimenti e stati d’animo, perché a volte dire “ho paura” l’avrebbe solo resa più concreta, un uomo che, umanissimo, teme più di ogni altra cosa il tempo:
La storia di Lyle è la storia di un uomo che si interroga, dei dubbi e delle domande a cui difficilmente sappiamo dare una risposta certa ma che siamo spinti a porci. E di un padre, che non sempre sa dare voce ai propri sentimenti e stati d’animo, perché a volte dire “ho paura” l’avrebbe solo resa più concreta, un uomo che, umanissimo, teme più di ogni altra cosa il tempo:
Ma Lyle non voleva andarsene. Voleva restare lì, per sempre, fisso in quel punto del tempo e dello spazio, su quella porta a cui stava appoggiato, a guardare la donna che era sua moglie da una quarantina d’anni e quel miracolo di nipote. Fermo lì, nella luce della tarda mattinata, in mezzo agli odori della colazione che ancora non erano svaniti, in quella casa che tanto amava, vicino a quei treni che correvano attraverso le sue giornate, clicchete-clac, clicchete-clac, e le chiatte che si muovevano lente sul largo fiume marrone e i motociclisti lungo River Road e le mele, ogni giorno un po’ più grosse, su rami sempre più incurvati, e il suo amico Hoot che trafficava pigramente tra i cofani delle sue mustang gemelle guaste… (p. 92)
Ci sono rapporti umani complicati, figlie in perenne contrasto con i genitori, e poi c’è Peg, che tiene insieme tutti i pezzi, anche quando dentro di sé va in frantumi, che si sforza di capire, accettare, avvicinarsi:
Lyle pensava spesso che il mondo, governato in modo così rozzo e violento dagli uomini, stesse in piedi grazie a donne come Peg, donne che soffrivano in silenzio, amavano smisuratamente e alla fine di ogni giornata rimettevano insieme i pezzi, dopo essersi preoccupate che in casa tutti si lavassero la faccia e avessero la pancia piena, e che le paure di ciascuno si placassero o svanissero. (p. 257)
Peg, che ricorda le donne di Haruf e quelle dei romanzi precedenti di Butler stesso, la loro forza che si traduce in sopportazione, tenacia, l’amore incondizionato. È solo un accenno, ma di una forza straordinaria, il peso di un amore così totale e devoto, difficile da sostenere per qualsiasi figlio, quasi impossibile per uno che si interroga sulla propria venuta al mondo. Dall’altra parte, c’è lo sforzo di comprendere le scelte e i rifiuti di una figlia cresciuta con tutto l’affetto e le attenzioni di cui si è stati capaci, ma di cui a un certo punto è come se si fosse smesso di comprenderne il linguaggio.
«Vorrei capirla» disse lui. «Non devi» sospirò Peg, «devi soltanto amarla» (p. 63)
E, forse, è tutta qui la chiave.