Una signora perduta
di Willa Cather
Adelphi, 1990
pp. 140
€ 12,00
Titolo originale: A Lost Lady
Traduzione di Eva Kampmann
Gli sarebbe piaciuto […] domandarle se avesse scoperto davvero una gioia che non appassiva mai, non si spegneva mai, non cessava mai di toccarti il cuore – o se fosse soltanto un’attrice consumata.
C’è qualcosa di difficile da definire, nella figura di Mrs Forrester, che la rende affascinante e irresistibile per chiunque le si trovi accanto: una certa grazia in tutto ciò che fa, “da gran signora”, fosse anche fuggire da un toro inferocito; la sua massa di capelli corvini, il brio naturale, la sua giovinezza – almeno all’inizio della narrazione:
Bastava uno sguardo di Mrs Forrester per rivelare che era una donna piena di malia. Era una sensazione immediata, capace di trapassare anche la pelle più coriacea. [...] Un incontro con Mrs Forrester non poteva mai essere insignificante: bastava un suo cenno del capo, uno sguardo, e subito s’instaurava un rapporto. In lei c’era qualcosa che faceva presa sulle persone in un lampo, e ognuno avvertiva intensamente la sua presenza: la sua fragilità e la sua grazia, la sua bocca che sapeva dire tante cose senza pronunciare una parola, i suoi occhi vivaci, ridenti, profondi, quasi sempre un po’ beffardi. (p. 33)
Ci troviamo a Sweet Water, amena cittadina affacciata su una recente linea ferroviaria che corre attraverso il West, in una terra gravida di promesse che alla lunga verranno solo parzialmente mantenute. Qui il capitano Forrester ha costruito il suo paradiso privato, una villa sulla collina, circondata da pascoli, boschi e torrenti, e vi si è trasferito con la moglie molto più giovane di lui. Fin dal suo arrivo, la signora Forrester ha turbato le fantasie di tutti con la sua delicata bellezza. A essere colpito, in particolare, è il giovane Neil Herbert, che già dalla sua adolescenza vede in lei una sorta di modello del femminile. Non si rende conto, neanche crescendo, di come sotto la superficie nella donna covi uno spirito inquieto, un bisogno pressante di libertà e di trasgressione. Non nota il suo legame con l’avvenente e istrionico Ellinger, con i suoi occhi che celano “un che di animalesco” (p. 56) e l’“inquieta energia dei muscoli che ricordava, in un certo modo, la crudeltà delle bestie feroci” (p. 41). Sente, a tratti, su di lei l’odore dell’alcool, ma annienta il sospetto con mille attenuanti plausibili. Ha bisogno di immaginarla devota al marito, uomo integerrimo che lui stima e ammira, e così chiude gli occhi davanti a segni di cedimento che si fanno sempre più evidenti, almeno al lettore.
Nel momento in cui subentra la consapevolezza, il mito di lei si incrina, proprio mentre per tutti inizia a vacillare quello del sogno americano che ha guidato il capitano Forrester: “Una cosa sognata nella maniera che io intendo è già di per sé un fatto compiuto. Tutto il nostro grande West è nato da sogni così: dai sogni del colono, del cercatore d’oro, dell’appaltatore” (p. 48).
Per Neil, l’intuizione della verità è un trauma e segna il passaggio definitivo dall’ingenuità della giovinezza all’età adulta. Ciò che lui non perdona, né può perdonare, è proprio l’uccisione dell’illusione perpetrata per mano della donna: “Tra l’attimo in cui si era chinato sulla soglia e quello in cui si era rialzato aveva perduto una delle cose più belle della sua vita” (p. 72). Eppure la lealtà e la devozione prevalgono sulla frustrazione, così Neil rimane uno dei pochi ad affiancare la famiglia nel momento della crisi, che è profonda e coinvolge più piani dell’esistenza.
Non si può dire molto di più per non guastare la lettura, che deriva il proprio piacere dalla scoperta di piccole cose, fatti minimi che animano la trama. Si deve però rilevare, evidente in ogni pagina, il grande talento narrativo di Willa Cather, autrice americana attiva nei primi decenni del Novecento, la sua straordinaria abilità nel catturare le impressioni di ambienti e personaggi. Le immagini da lei prescelte, le similitudini liriche, le metafore di cui le descrizioni sono fitte restituiscono vividi i paesaggi naturali, i caratteri complessi e stratificati dei protagonisti:
Quella risata seducente e melodiosa, come la musica di un ballo lontano che si ode tra l’aprirsi e il chiudersi di una porta. (p. 38)
Il cielo ardeva del rosa pallido e argenteo delle mattine estive senza nuvole. Le erbe palustri, grevi e ricurve, lo schizzavano bagnandolo fino alle ginocchia. Tutto l’acquitrino era come rivestito di freddi, roridi strati d’argento, mentre le piante carnose, simili a cactus, tendevano i loro grappoli piatti del colore dei lamponi. Una purezza quasi religiosa pervadeva l’aria fresca del mattino, il cielo delicato, l’erba e i fiori lustri di rugiada. C’era un che di limpido, di lieto in ogni cosa, come sommesso richiamo mattutino degli uccelli che sfrecciavano nel cielo terso. Dall’oriente color zafferano il sole, di un giallo tenue come di vino, cominciò a indorare i prati odorosi e le cime luccicanti degli alberi. (p. 70-71)
Trapassa, nello scorrere delle pagine, un sentimento malinconico, di lieve amarezza, per l’evoluzione di un mondo in cui c’è poco spazio per i sognatori, per gli illusi, per i pionieri; un mondo in cui è sempre più difficile lasciare spazio alla bellezza. C’è un che di tragico e attuale, ma anche di ineluttabile, nella fragilità di Mrs Forrester, che ricorda alcuni dei romanzi coevi di Irène Némirovsky (il pensiero vola immediatamente alla Gladys di Jezabel). La domanda che Willa Cather si pone e ci pone è se, ed eventualmente come, si possa sopravvivere al tramonto dell’ideale. Per conoscere la risposta, è necessario arrivare, e lo si fa non senza una certa mestizia, alle ultime pagine del volume, dove l’autrice sceglie di non lasciare orfano il lettore, regalandogli una conclusiva, seppur esile, vena di speranza.
Carolina Pernigo