L'esordio di Arianna Cecconi: un mondo sospeso fra la terra e il cielo


Teresa degli oracoli
di Arianna Cecconi
Feltrinelli, 2020

pp. 208
€ 16,00 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)

Non so se la Sibilla Cumana invidiasse Cassandra – anche lei Sibilla, anche lei toccata dall’amore di Apollo e condannata, per non averlo ricambiato, a non essere mai creduta, le sue parole troppo vicine alla verità per essere ascoltate.
Non so quando Apollo posò gli occhi su mia nonna Teresa. (p. 9)
Ho scoperto questo libro a Pistoia, durante la manifestazione L’anno che verrà: i libri che leggeremo, edizione 2019. A colpirmi è stata la personalità dell’autrice, che faceva da contraltare a quella dell’altra donna presente insieme a lei. Romina Casagrande, infatti, presentava in anteprima I bambini di Svevia (Garzanti) e, benché fosse al suo primo libro con una major, mostrava tutta la sicurezza di una scrittrice già avvezza alla cosa: il suo tono era fermo e placido, il suo modo di parlare fluido e cadenzato.
Arianna Cecconi, invece, al suo esordio con una big come Feltrinelli, parlava in preda all’entusiasmo, muoveva le mani e aveva nella voce un tono sognante. Era una presenza dotata di una energia magnetica. Antropologa, dichiarava, studiosa dei sogni e del loro ruolo all’interno delle culture, si era dedicata alla cultura peruviana.
La sua presentazione mi è rimasta impressa e per giorni ho pensato alla sua saga familiare: a Teresa, soprattutto, che, colta dall’Alzheimer, un giorno smette di parlare per non farsi scappare un segreto fondamentale. Speravo dunque di ritrovare quel magnetismo, quell’energia, quella passione per il mondo onirico e per una forma ancestrale di spiritualità animistica nel suo romanzo d’esordio.
E così è stato, in effetti. Questo libro, c’è da dirlo, ha uno degli incipit più forti mai incontrati nella mia vita da lettore: le prime cinque pagine hanno una capacità immaginifica in grado di trasportare dal mondo reale, fatto di strade, alberi, automobili, direttamente nella casa del fico, fra gli odori della campagna e il ciabattare di vecchie pantofole sul pavimento consumato. L’incipit, ma anche la prima metà del romanzo, è un esempio di perfezione, una narrazione in cui abbondano nozioni antropologiche, rituali antichi e una forma di poesia legata alla terra e alle tradizioni.
C’è una forza trascinante in queste pagine che quasi fa mancare il fiato, scandita anche da immagini che compaiono come minuscoli quadri: «Ci portiamo addosso il passato come la balene che nel grasso della pancia conservano le ossa di quando camminavano. Mentre nuotano, enormi balene, i pesci le guardano senza sospettare che quei grandi animali al loro fianco un tempo respiravano aria e camminavano sulla terra» (p. 15).

Assistiamo, accanto al letto della moribonda, all’atto finale della lunga vita di Teresa, matriarca di una famiglia tutta al femminile, e intorno a lei troviamo le altre donne, ognuna intenta a fare i conti col passato; ognuna con i propri rituali e le proprie scaramanzie. D’altronde famiglia, come, casa, è femmina perché finisce con la A. Qui però, accanto a loro, l’incantesimo iniziale si rompe. La linearità storica si fa fragile e al lettore viene imposta una a-storicità tipica dei sogni: andiamo avanti e indietro con le donne della famiglia, scaviamo nel loro passato, scopriamo cosa si nasconde nelle loro vite sepolte. Laddove l’elemento antropologico risulta ancora ben saldo – ancorché indebolito rispetto alle premesse (e promesse) iniziali – quello narrativo sembra sfaldarsi Nel presente accade di fatto alcunché di rilevante mentre importanza assume il passato; un passato su cui, oltretutto, non hanno potere né i personaggi né tantomeno il lettore. Si assiste impotenti allo svolgersi degli eventi, partecipi solo parzialmente come spettatori. Non c’è un gioco, insomma, fra narrazione e lettura: è tutto già accaduto, già visto, già ascoltato. Solo ciò che accade nella stanza ha una propria portata, peccato che accada poco; e anche qui, ciò che accade è all’interno dei personaggi i quali, facendo i conti con se stessi, subiscono una sorta di illuminazione.

Il problema di questo romanzo è a mio avviso nella necessaria accettazione della premessa: che Teresa, invecchiando e scegliendo di diventare muta, assurga in qualche modo al ruolo di oracolo. È qui il gioco col lettore: se quest’ultimo accetta la premessa, allora le risoluzioni finali – gli archi di trasformazione dei personaggi – hanno un nesso causale con la narrazione; se non l’accetta, le loro intuizioni risultano isolate. E non è semplice accettare tale premessa “sulla fiducia” perché questa sorta di realismo magico non viene esplorato a sufficienza, ancorato, in qualche modo razionalizzato all’interno delle circa duecento pagine del libro.
Resta qualcosa di sospeso nell’aria di modo che, quando si giunge alla fine, sembra di percepire la mancanza di qualcosa. Di una complicità, forse, o magari di una spiegazione più convincente. Ciò che resta di uno spiritualismo impregnato di terra e sangue è qualcosa che aleggia nell'aria, un mistero solo parzialmente svelato.
Arianna Cecconi è in ogni caso un’autrice da seguire da vicino: i  suoi punti di forza sono il suo entusiasmo e la sua energia, sebbene corra il rischio di disperdersi fra le pagine.

David Valentini

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