“Ci sono pochi posti nel mondo dove il divario tra quello che crediamo di sapere e quello che sappiamo è tanto ampio quanto nel caso degli Stati Uniti. L’influenza statunitense nei nostri consumi è così longeva che pensiamo di conoscere bene l’America quando in realtà, nella gran parte dei casi, la nostra idea è un impasto di luoghi comuni e poche informazioni concrete”.
Cosa è per noi l’America?
Molto spesso l’idea che ci siamo fatti è fortemente influenzata dai film e dalle serie tv, che ci presentano un’idea non fedele alla realtà. Inoltre, quando ci rechiamo in vacanza in Usa, il più delle volte visitiamo luoghi e città che non rappresentano la vita vera del cittadino americano.
Il libro di Francesco Costa offre una grande opportunità per scoprire la vera America, per capire cosa c’è dietro molte scelte e abitudini di questo Paese.
Particolarmente interessante è l’approccio giornalistico dell’autore, che parte dall’osservazione e dall’analisi dei fatti passati, arrivando alla radice dei problemi prima di presentare la situazione attuale.
Il libro si articola in otto capitoli, ognuno dei quali tratta un argomento diverso: dalla radicalizzazione dei due maggiori partiti politici all’inquinamento dell’acqua a Flint nel Michigan, dal costo delle case all’utilizzo delle armi, dal cambiamento demografico alla differente evoluzione dell’economia nei vari Stati.
Personalmente la parte che ho preferito è stata quella relativa agli oppiacei: “Gli abusi di farmaci antidolorifici, infatti, non sono soltanto una questione sanitaria e di tossicodipendenza: coinvolgono la società statunitense nei suoi pilastri e nella sua storia” (p.11). E proprio analizzando la storia, l’autore, con un linguaggio sempre chiaro ed esplicativo, spiega come il ricorso agli antidolorifici sia una vera e propria piaga sociale. A partire dagli anni ’80-‘90, i medici hanno iniziato a prescrivere in modo dissoluto e senza farsi troppe domande questi farmaci; sono così venute a crearsi dipendenze: “Dal 1999 al 2018 quasi 800.000 persone negli Stati Uniti sono morte per overdose, la grandissima parte per overdose da oppiacei” (p.7). La provenienza geografica, culturale e sociale ha fatto il resto, nel senso che le zone con la maggior depressione economica sono state il terreno ideale per la diffusione dell’uso di sostanze stupefacenti e gli interessi economici delle case farmaceutiche hanno sfruttato la triste situazione.
Questa è l'America
di Francesco Costa
Mondadori, 2020
pp. 204
€ 18,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
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Gli otto capitoli, pur essendo indipendenti l’uno dall’altro, sono una parte di un puzzle che ci permette di comprendere gli Stati Uniti di oggi, anche alla luce delle prossime elezioni americane. Costa, inoltre, in varie parti del testo spiega anche i meccanismi politici e legislativi che stanno alla base del sistema elettorale statunitense, così lontano da quello che caratterizza il nostro Paese e anche l’Europa.
Ho avuto la possibilità di intervistare l’autore, che è stato di una disponibilità davvero unica, ma prima di passare all’intervista qualche informazione su di lui. Francesco Costa è il vice-direttore de Il Post, ha ideato i podcast “Da Costa a Costa” (fruibili gratuitamente) e “The Big Seven” (su Storytel), e scrive settimanalmente una newsletter sugli Stati Uniti, attualmente il focus è sulle elezioni americane.
Ed ecco quanto emerso dalla nostra interessante chiacchierata.
Come è nata la tua passione per gli USA?
Credo la scintilla sia nata all'università, studiandone la storia, ma l'incendio si è sviluppato sicuramente seguendo la prima campagna elettorale di Barack Obama tra il 2007 e il 2008. Ero poco più che ventenne, avevo un blog da qualche tempo e stavo iniziando a provare a fare il giornalista. Quella storia mi catturò e mi portò a restare sveglio le notti per seguire la CNN, e poi a comprare e leggere una montagna di libri, e poi a leggere ogni giorno la stampa americana, e poi a guardare The West Wing...
Vai in Usa anche per vacanza? Se sì dove e cosa ti piace fare se sei in vacanza?
Sì, ogni volta che posso, anche perché quando ci vado per lavoro... ci vado davvero per lavoro. Ogni tanto qualcuno mi chiede dove mangiare a San Francisco, per esempio, e la mia risposta è: “boh”. Ci sono stato due volte ma entrambe per lavoro, l'ho girata un bel po', ma ho mangiato dove capitava, e in generale mi sono perso tutte le attrazioni turistiche. In generale sono un tipo da città, e adoro il caos di opportunità, incontri, contaminazioni, cambiamenti e conflitti delle grandi città, però mi piace anche l'America che incontri guidando da un posto all'altro. L'ultima vacanza americana l'ho fatta nell'ovest, dalla California all'Arizona allo Utah fino al Nevada; comunque in generale se mi porti a spasso senza meta a New York sono felice.
Quando e cosa ti ha spinto a raccontare quella parte di Usa che come tu definisci “sta in mezzo” (pag 41)?
Era una realtà che conoscevo già, ma sicuramente viaggiare in Texas mi ha dato una nuova prospettiva sull'identità dei pezzi di America che noi europei siamo soliti attraversare in macchina e che giudichiamo semplicemente come strada da percorrere, distanza da colmare tra il punto A e il punto B. Invece quei posti sono quintessenzialmente americani.
Se si vuole comprendere il rapporto degli americani con lo Stato, e quindi quello che chiedono alla politica, bisogna partire da lì. Lo stesso se si parla di sanità, di armi, di sviluppo e di moltissime altre cose.
Quanto parli del Texas dici “in Texas c’è un patriottismo esagerato”; a tuo avviso c’è uno stato Europeo con un approccio simile e, se sì, quale e in che termini?
In Europa non esiste niente di nemmeno lontanamente paragonabile. Ma non solo al patriottismo del Texas: a quello dell'America in generale. Anche degli americani progressisti. Liberi di trovarlo inquietante – a volte lo è indubbiamente – ma quel patriottismo è anche espressione di un'ingenuità e di un'ambizione che noi abbiamo perso da tempo, e che è essenziale al progresso. Il comprensibile fastidio intellettuale per il patriottismo in Europa diventa facilmente nichilismo, rassegnazione e cinismo, i principali attributi di una società depressa e immobile.
“Nei posti dove si cresce meno, si cambia meno; nei posti dove si cambia meno, si cresce meno”(p. 64). Ci spieghi questo concetto, soprattutto per coloro che non hanno ancora letto il libro?
Quando leggiamo il dato sulla crescita americana del PIL stiamo leggendo una media. Se il PIL è cresciuto del due per cento in un anno, supponiamo, non vuol dire che è cresciuto ovunque del due per cento in un anno. In alcuni posti sarà cresciuto del tre, del quattro o del cinque, mentre in altri sarà cresciuto dell'uno o non sarà cresciuto affatto.
Dato che gli Stati Uniti sono una nazione grande quanto la Cina e abitata da 320 milioni di persone, questo vuol dire che ci sono enormi differenze tra un posto e l'altro. Guardando i dati del PIL stato per stato, si nota immediatamente che la crescita economica americana è trainata in generale dalle città e soprattutto dagli stati del Sud-Ovest. California, Arizona, Colorado, New Mexico, Texas, Nevada, Utah. I posti che crescono meno, invece, sono in generale le aree rurali e poi gli stati del Nord e dell'Ovest, il Maryland, l'Iowa, il Vermont, l'Illinois, il Connecticut...
Ora, c'è un'altra cosa che divide queste due Americhe, oltre alla crescita economica: la prima America è quella che è cambiata di più dal punto di vista demografico negli ultimi anni, è quella più giovane e dove abitano e vivono più immigrati e persone non bianche, è quella dove arrivano dall'estero – anche dall'Europa e dall'Italia – le persone che oggi cercano lavoro in America; la seconda è quella che è ancora bianca per l'ottanta o il novanta per cento, dove la popolazione è mediamente più anziana, e che è cambiata meno negli ultimi anni dal punto di vista demografico.
Che i Democratici sono stati autenticamente traumatizzati dalla vittoria di Donald Trump nel 2016 e sono terrorizzati dall'idea di perdere ancora.
Questa sensazione è accentuata dal fatto che i loro molti candidati gli presentano moltissime opzioni possibili, ma tutte con evidenti limiti e imperfezioni, cosa che sta generando già grossi conflitti tra gli attivisti e una sorta di "paralisi" tra gli elettori. Trump non è un presidente imbattibile, ma questo dipenderà innanzitutto da chi sarà la persona che i Democratici sceglieranno di opporgli e per il momento non si vede nessuno in grado di convincere la maggioranza degli elettori del Partito Democratico.
A pagina 111 leggiamo di “una economia fondata ancora oggi molto più sulla domanda interna che sulle esportazioni”; trovi che sia veramente efficace questo modello?
Beh, dato che parliamo del Paese che ha da vari decenni la più grande e forte economia del mondo, direi che fin qui abbia funzionato meglio di tutti gli altri, pur con tutti i suoi problemi (qualcuno non ne ha?). Non voglio entrare troppo sul tecnico ma le esportazioni sono necessarie soprattutto per un Paese come il nostro, che non ha grandi materie prime né un mercato interno grande e dinamico.
Mentre – di nuovo – l'America ha la superficie della Cina e la popolazione di Italia, Francia, Germania, Spagna e Regno Unito messe insieme. È un mercato abbastanza grande, e permette di sfruttare i benefici della concorrenza trovandosi meno esposti di noi – non che non lo siano – ai rischi della competizione con l'Asia.
Nella pagina dopo leggiamo come “una posizione di simile dominio economico si sia sviluppata in un contesto politico e legislativo particolarmente disfunzionale”. Ora l’Italia non è lontana da questo scenario. Cosa ci manca per arrivare a una parabola di sviluppo almeno simile?
Quello che intendo è che sia notevole – e vada spiegato, ma si può spiegare e nel libro ci provo – che il dominio economico statunitense si sia sviluppato in un contesto disfunzionale, ma non che un contesto politico e legislativo disfunzionale sia necessario per avere uno sviluppo economico, anzi! Altrimenti probabilmente noi avremmo l'economia più solida e florida del pianeta.
Si parla molto di visione e tu nelle tue stories ci hai aiutato a capire i candidati. Al momento chi ha la visione “migliore”?
Non giudico i candidati in termini di "migliore" o "peggiore", cerco proprio di non guardare alla politica americana con questo genere di sguardo: innanzitutto perché mi farebbe lavorare male, ma soprattutto perché non avrebbe senso. Capisco benissimo come le grandi storie di certi candidati possano attirare grandi curiosità anche qui da noi – io stesso ho fatto coming out già alla prima risposta! – ma trovo sempre molto straniante quando mi imbatto in italiani che si comportano come sostenitori e attivisti per questo o quel candidato americano. Quello che noi pensiamo della sanità, del lavoro, della società, eccetera, è evidentemente frutto del nostro essere europei, della nostra cultura, della nostra vita qui.
È piuttosto arrogante pensare che ci permettano di individuare le soluzioni migliori lì. Capisco le buone intenzioni, ed è normale avere simpatie e antipatie, ma l'idea è che questo vissuto ci possa permettere di individuare il candidato "migliore" per l'America è narcisista e fuorviante. Io non cambierei mai il sistema sanitario italiano con quello americano, ma ci sono tantissimi americani che non farebbero mai l'opposto: possiamo decidere che sono tutti scemi oppure possiamo provare a capire il senso di questo dato di fatto dentro la loro cultura, dentro la loro vita. Tutta questa lunga premessa per dire che non so dire chi abbia la visione "migliore". Posso dire chi credo sia stato più bravo fin qui ad articolare la propria, di visione: Bernie Sanders e Pete Buttigieg.
Sbaglio o il concetto di "hope" è molto presente nell’attuale campagna? In quali termini?
La speranza è un tema ricorrente nella società americana in generale, e quindi anche nelle campagne elettorali.
Esiste nella religione e nella cultura popolare, dove viene declinata nei modi più diversi, da quelli più idealisti e spirituali a quelli da manuali di self-help. Credo sia una conseguenza del fatto che la società americana rimane alla fine della fiera una società ottimista. Anche quando le cose vanno male – e per molti americani le cose oggi vanno male – riesce a trovare qualcosa a cui aggrapparsi. In politica l'ultima grande carriera giocata intorno al tema della "speranza" è stata quella di Barack Obama, soprattutto nel 2008. Oggi il candidato che più si ispira a quel messaggio è evidentemente Pete Buttigieg, seppur con identità e talenti completamente diversi, ma c'è una differenza importante: nel 2008 non c'era un presidente uscente ricandidato, e George W. Bush era molto impopolare anche nella base del suo partito. Il campo era aperto e la grande crisi globale era appena arrivata. In quel contesto l'enfasi sulla speranza poteva avere un senso e ottenne risultati.
Oggi l'economia americana galoppa, per quanto in modo asimmetrico, e c'è un presidente uscente che sarà ricandidato e che gode di un sostegno fortissimo nella base del suo partito. Bisognerà declinare il tema della speranza in un altro modo.
I candidati si recano ovunque applicando interessanti strategie di marketing. Chi al momento ha dato il meglio in questo senso?
Il "marketing" in politica è semplicemente propaganda, si fa da sempre e in tutti i Paesi del mondo; seguire la propaganda politica americana però è interessante perché i suoi contenuti sono molto influenti. Il "contratto con gli italiani" arriva dopo il "contratto con l'America", "si può fare" arriva dopo "yes we can", "prima gli italiani" arriva dopo "America first".
Anche su questo i candidati più efficaci fin qui sono stati sicuramente Sanders e Buttigieg, ma bisogna tenere d'occhio Michael Bloomberg: le sue risorse economiche infinite gli permettono di fare esperimenti ambiziosi, come il recente arruolamento dei più popolari account di meme su Instagram.
Stando alla situazione attuale quali possono essere i candidati finali in lizza per le elezioni di Novembre?
Quello del Partito Repubblicano sarà Donald Trump. Per quanto riguarda il Partito Democratico, capire il presente è già abbastanza difficile, figuriamoci prevedere il futuro!
Io ti seguo nei tuoi progetti ma… come fai a fare tutto quello che fai (i tuoi ritmi fanno invidia a un maratoneta in gara)?
Non c'è nessun particolare trucco, se non che riesco a lavorare tanto. Inizio alle 5 del mattino e finisco la sera, a volte la notte, a volte anche nei weekend.
Dopo le elezioni di novembre rallenterò, ma d'altra parte non lavoro in un settore che brilli per grandi successi e opportunità offerte, quindi bisogna darsi da fare, studiare, migliorare, farsi venire delle idee e soprattutto – soprattutto – lavorare tanto.
Sono cambiate tante cose nel giornalismo negli ultimi vent'anni, ma questa è probabilmente quella di cui si parla meno. I tempi in cui si poteva arrivare in redazione alle 10 e scrivere due pezzi alla settimana sono finiti.
Intervista a cura di Elena Sassi