Il sale della terra
di Jeanine Cummins
Feltrinelli, 2020
pp. 410
€ 18,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
€ 9,99 (ebook)
Titolo originale: American Dirt; traduzione di Francesca Pe’
Tante sono state le polemiche che hanno accompagnato l’uscita di American Dirt di Jeanine Cummins, pubblicato in Italia da Feltrinelli con il suggestivo titolo Il sale della terra. C’è chi ha scritto che una donna bianca statunitense non può raccontare con piena consapevolezza la storia di una migrante messicana, chi ha accusato il libro di vivere di stereotipi, o di alimentare pregiudizi riguardo la realtà socio-politica del Sud America. C’è chi l’ha trovato retorico e forzatamente sentimentale; chi l’ha giudicato superficiale e offensivo per il paese rappresentato e la minoranza messicana. C’è chi ha amato il libro e ne ha fornito recensioni entusiaste, chi invece l’ha criticato aspramente. Sicuramente, è un romanzo su cui si è molto dibattuto.
Totalmente ignara di tutto ciò, intanto, io mi apprestavo a leggerlo. In una Acapulco dove imperversano i cartelli, in particolare quello dei Jardineros, guidati dall’intelligente e spietato Javier, detto La Lechuza, cioè la Civetta, Lydia vive in una condizione di relativo benessere insieme al marito giornalista Sebastián e al figlio di otto anni, Luca, un bambino dall’intelletto molto precoce. Questo stato di serenità viene rievocato però solo a posteriori, attraverso una serie di flashback, perché il romanzo si apre nel momento della sua brusca e violenta infrazione. Dopo la pubblicazione di un’inchiesta di denuncia sul capo del cartello, infatti, un gruppo di uomini armati fa irruzione a una festa di famiglia e uccide tutti i presenti, ad eccezione di Lydia e Luca, che si salvano per puro caso. Scioccata dagli eventi, ma mossa dalla necessità di proteggere il figlio, la donna deve ragionare in fretta e trovare una via di fuga, che pare non esistere in un mondo in cui dilaga la corruzione e la malavita allunga i suoi tentacoli ovunque e ha sul proprio libro paga informatori reclutati in ogni settore, polizia compresa. L’unica pallida aspettativa di salvezza, nell’impossibilità di ricorrere ai mezzi di trasporto regolari o di fidarsi di chiunque, è allora forse quella di mettersi sulle rotte dei migranti, finanche di utilizzare la Bestia, il terribile treno merci che sale verso il norte e riesce nel tragitto a mietere molte vittime. Questo comporta per Lydia una totale ridefinizione della propria condizione (“ha pensato a un camuffamento: potrebbero travestirsi da migranti. Ma ora che è seduta nella tranquillità della biblioteca con suo figlio e gli zaini pieni fino all’orlo, come un fulmine a ciel sereno Lydia capisce che il loro non è affatto un travestimento. Lei e Luca sono migranti per davvero. È ciò che sono diventati”, p. 109). Il decentramento della prospettiva è fondamentale nella narrazione, perché il testo racconta – oltre a una lunga fuga per la sopravvivenza – la storia di una formazione dolorosissima: nel momento in cui vedono i teli bianchi della scientifica depositarsi sui cadaveri dei loro cari, Lydia e Luca muoiono a se stessi, sono costretti a intraprendere una ricerca durissima di una identità che non è più sicura. Quelle che arrivano alla fine del viaggio non sono più le persone che sono partite. A segnarle, a cambiarle, non è solo il trauma iniziale, ma sono anche e soprattutto i pericoli, i turbamenti, gli incontri distruttivi o salvifici che avvengono lungo il percorso, tutti che concorrono in uguale misura a ridiscutere le certezze dei fuggitivi, a tratti anche il loro stesso status di esseri umani.
Lydia non aveva mai dimenticato l’hacienda, il vento forte nelle orecchie e i cani del nuovo zio che radunavano il bestiame spaventato. Erano instancabili, quei cani da pastore bianchi e neri, e correvano descrivendo grandi archi per circondare le mucche agitate. Il bestiame pestava gli zoccoli e faceva scatti improvvisi. Lydia ricorda che quel giorno anche tutti gli altri invitati erano rimasti sbalorditi da quei cani, sorridenti e ansimanti, tutti presi a correre nei loro archi perfetti. [...] Le mucche spaventate avevano fatto pena solo a Lydia. Era come se tutti gli altri si fossero dimenticati che erano animali anche loro. Adesso, mentre le camionette tracciano i loro archi intorno ai migranti nel panico, quel ricordo riaffiora. Lydia non si è mai paragonata a un animale prima d’ora, né di proposito né per una metafora psicologica casuale. Così, il ricordo è accompagnato da una disperazione schiacciante. Tutte le persone nel campo hanno qualcosa di animalesco. Le sembra di essere una preda. (p. 239)
La trama si sviluppa linearmente, alimentata e sospinta da un respiro epico nella brama di vita e di salvezza dei suoi protagonisti. Al tempo stesso, però, è forte l’ottica di riflessione sociale, che emerge chiara dal tessuto narrativo: le contraddizioni di un Messico che è patria tradita, terra di conflitti, ma anche luogo dei ricordi, della generosità di tante persone, di una solidarietà che lega insieme tante delle vittime di diversi soprusi:
Adesso la paralisi dell’empatia tocca a Lydia. Quell’emozione profonda la sorprende: come può esserle rimasto del dolore da riservare agli altri, al nipote assassinato di Paola? Eppure eccola lì, l’angoscia che le svuota le ossa, la disperazione per un bellissimo ragazzo che lei non ha mai conosciuto. Per gli innumerevoli lutti di tutti quei ragazzi rubati, che si estendono da una famiglia all’altra come uno dei giochi di Luca, quello in cui bisognava unire i puntini. È così grande, la sofferenza. È esponenziale. Ogni morte violenta si amplifica di cento volte, mille volte. […] A che scopo? (pp. 308-309)
A salvare Lydia e Luca sono infatti le relazioni umane, la capacità di identificare l’altro non solo con la disumanità e la barbarie, ma anche con la possibilità di ricreare una famiglia, per quanto effimera e transitoria: così è con le due sorelle Rebeca e Soledad, che trascinano la loro bellezza come un fardello e un pericolo in grado di perderle; così con Beto, sorridente e sconclusionato, ma aperto, generoso; così con Marisol, deportata dagli Stati Uniti e costretta a ritornarci attraversando il deserto; così con molti altri volti singoli, identificati ognuno con la propria storia, con le proprie motivazioni, al di là della singolarità degli intenti. Perché da soli non ce la si fa: non tanto a superare il viaggio, quanto ad affrontare la progressiva dispersione di tutta la forza, di tutte le speranze, di tutte le illusioni. Gli altri servono a ridare linfa al sogno, a insufflare vita negli animi spenti, a impedire il collasso dell’io:
“Trecento chilometri, [...] e poi è tutto finito. Tutto questo incubo, ogni cosa, tutto. Saremo nel norte, dove nessuno potrà più farci del male. Staremo bene e saremo al sicuro.” [...]
Rebeca non crede nemmeno a una parola. Né tantomeno capisce come faccia Soledad a essere così ingenua dopo tutto quello che ha passato. Rebeca ha perso l’innocenza. Sa che per loro non c’è un solo posto sicuro al mondo, che il norte sarà uguale a tutti gli altri. San Pedro Sula era terribile, il Messico è terribile, il norte sarà terribile. Persino i suoi ricordi dorati della foresta tra le nuvole cominciano a marcire e a decomporsi. Adesso, quando si guarda indietro, non ricorda la voce della madre, né il profumo delle erbe essiccate, né il coro delle raganelle di notte, né il tocco fresco delle nuvole sulle braccia e sui capelli. Ricorda la povertà che ha spinto suo padre e tutti gli uomini lontano, nelle città. Ricorda la minaccia crescente dei cartelli, la scarsità di risorse, la fame onnipresente. Così, è solo per far piacere alla sorella che Rebeca annuisce. (p. 277)
Il viaggio comporta perdite, sacrifici. Comporta confrontarsi con la rigidità delle istituzioni e l’ostilità delle persone, con l’avversità del clima e le mazzette da pagare ai posti di blocco; con le ingiustizie e i soprusi spesso gratuiti, radicati nel sistema; con l’idea che ogni individuo sia una merce che ha un prezzo e come tale venga trattato. Questo e tanto altro vuole mostrare Jeanine Cummins, in un romanzo che vuole andare oltre alle statistiche e indagare “il lato intimo di quelle storie” (p. 405). Lo fa senza indugiare sui sentimentalismi – anche se la commozione a tratti è inevitabile. Lo fa con una prosa nettissima, vivida, avvincente. Lo fa con gli strumenti offerti dalla letteratura di consumo, e l’etichetta non vuole qui essere connotata negativamente, ma indicare il target a cui l’opera è rivolta: perché è indubbio che quello di Cummins sia un testo pensato per raggiungere il grande pubblico, per attirare l’attenzione su un tema di cui a suo avviso si dovrebbe parlare di più (“ero delusa dal tenore del discorso pubblico sull’immigrazione in questo paese. Sembrava che tutto ruotasse intorno a questioni politiche, mentre le considerazioni morali e umanitarie erano completamente escluse”, p. 405). Per scrivere il libro, ci dice nella nota conclusiva, consapevole di una prospettiva di partenza limitata che avrebbe potuto essere criticata, ha dedicato quattro anni alle ricerche, alla lettura di quanto già scritto sull’argomento. L’esito è un romanzo che, al di là di ogni polemica, per il lettore funziona. Un romanzo di persone, prima che di eventi. Un romanzo che insegna anche qualcosa, pur non avendo l’ambizione di essere un saggio critico, o la minima pretesa di esaustività o assolutezza su un argomento troppo variegato e complesso per poter essere esaurito, o anche solo trattato complessivamente, in una singola opera. Il sale della terra si propone come frammento, ma ben riuscito, di un grande arazzo collettivo; come un pungolo delle coscienze per la popolazione troppo spessa fomentata dalla politica a dimenticare che l’umanità viene prima dell’ideologia. Jeanine Cummins padroneggia uno stile efficace, che tiene il fiato sospeso al lettore per più di quattrocento pagine e che non lo fa sentire defraudato del tempo impiegato. Un’impressione forte, questa, che non si può dire di avere con molti romanzi contemporanei, magari gradevoli, ma poco persistenti nel tempo e nella memoria. Certamente, al contrario, e oltre ogni discussione, Il sale della terra rimane un’opera che non si lascia dimenticare facilmente.
Carolina Pernigo