Le
affacciate
di Caterina Perali
Neo edizioni, 2020
pp. 164
€ 14,00 (cartaceo)
Sono le 07:08, sono sveglia, seduta sul letto, a chiedermi perché ho puntato quattro sveglie se non so cosa fare.
Un buio spesso, bucato solo dallo schermo dello smartphone, impedisce la funzione ipnotica dei chiedi, lasciandomi in preda a mareggiate di pensieri nocivi nei quali è giusto naufragare. (p. 17)
L’assunto di base del libro di
Caterina Perali, un nuovo Dry targato Neo edizioni, è che viviamo in una
società in cui il fallimento – anche quando non è causato da noi in prima
persona, anche quando lo subiamo e basta e non ne siamo partecipi – è da considerarsi un tabù. Del fallimento, soprattutto lavorativo,
figuriamoci quello amoroso, non si può parlare: mentre la vita crolla a pezzi,
e già dobbiamo faticare per raccogliere i famosi cocci, dobbiamo anche
mantenere la facciata delle persone vincenti, autorevoli, a cui va tutto bene. Il fallimento è per noi moderni come la peste per chi viveva nell'Europa medievale: si trasmette di persona in persona, dilaga, e dunque è meglio isolare quelle bestie e mettergli addosso un cartello con scritto "disoccupato".
In quest’epoca di pazzi poi, parafrasando
una canzone di Battiato, ci mancavano gli idioti dei social network. È proprio qui,
nella parte della società – e di noi – più evanescente ed eterea che
proiettiamo tutte le nostre false sicurezze, esasperiamo i nostri successi e
rimpiccioliamo le nostre paure. È qui che possiamo dimostrare, nonostante tutto, di non essere dei falliti. Sui social postiamo le nostre foto migliori, gli aneddoti più divertenti, celebriamo gli anniversari di fidanzamento, matrimonio, lavorativi; qui va sempre tutto bene, alla grande, e
anche quando va male siamo comunque forti abbastanza da non necessitare l’aiuto
altrui. Questo sfoggio di noncuranza, di un carpe diem all'amatriciana, o forse meglio ancora in formato fast food, viene
spesso esaltato attraverso qualcosa che è nato come movimento filosofico nell’epoca
tragica dei greci per sfuggire al dolore e si è tramutato nel tempo in uno stile di vita, anzi, nello stile di vita per eccellenza dei
leoni da tastiera: il cinismo.
È così che troviamo Nina: cinica,
intransigente, cazzuta quando si tratta di postare aggiornamenti riguardanti un
lavoro che ha perso da tempo, o quando nelle chat con la sua amica non ha il coraggio
di dirle che va tutto male, e piuttosto che affrontare le cose si perdono giorni a fare una conta indifferente dei decessi – i numeri, si sa, sono in grado di appiattire le tragedie, perché scrivere di 149 morti è più semplice che affrontare l'orrore di centoquarantanove singole vite distrutte – dopo l’ennesimo barcone
affondato o l’ennesimo attacco terroristico. Salvo poi trascorrere le giornate
a fissare il soffitto per provare a contare i chiodi nelle travi.
È l’incubo della nostra
contemporaneità quello di mascherare i propri problemi con una bella dose di
superficialità; di additare chi sta meglio di noi con un buona dose di invidia; di
minimizzare – ma solo nel nostro piccolo, mai a farlo nella vita reale – i problemi altrui e ingigantire i nostri. Questo
finché non si entra in contatto, come capita a Nina, con persone in grado di
sorridere nonostante – loro sì – abbiano passato l’inferno. Così, fra un
messaggio e l’altro all’amica del cuore, oltre al presente di Nina scopriamo
anche il passato di tre donne che hanno visto una guerra lontana ma non troppo,
hanno cresciuto da sole un figlio nato fuori dal matrimonio, sono state
rifiutate, sono cadute e si sono rialzate.
La cura avviene a volte per
sottrazione, o forse sarebbe meglio dire per allontanamento. Allontanandoci
dallo schermo del pc e del telefonino, facendo un passo indietro
rispetto alla ristretta visuale della nostra vita, abbracciando le vite
altrui – i loro dolori, le loro sofferenze – possiamo essere in grado di dare
il giusto peso a quanto accaduto. Pensare che, magari, se una donna è riuscita a
rifarsi una vita nonostante la guerra civile in Jugoslavia, forse anche noi
possiamo rimetterci in piedi. E il primo passo, come dice un vecchio adagio, è
ammettere di avere un problema.
Caterina Perali porta dunque in
libreria un romanzo secco, diretto, spietato, per nulla
scontato, completo nonostante la brevità (scrivo "nonostante" perché è uno dei pochi casi in cui avrei voluto leggere di più, anziché di meno). È tutto così realistico da farci
chiedere, mentre lo leggiamo, se anche noi non ci troviamo qualche volta a scambiare
messaggi con un amico, parlando dell’ultima tragedia del momento, solo per
evitare di guardare lo sfacelo nella nostra stanza.
David Valentini