Le peggiori paure
di Fay Weldon
Fazi, 2020
Titolo originale: Worst Fears
Traduzione di Maurizio Bartocci
pp. 270
€ 16,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
€ 9,99 (ebook)
Alexandra è stordita dalla morte improvvisa del marito Ned. L’hanno avvisata per telefono: lei si trovava a Londra per le repliche di Casa di Bambola di Ibsen, in cui recita il ruolo della protagonista. A occuparsi di tutto sono state la sua amica Abbie e l’appariscente Vilna, una conoscente non proprio gradita. Sono state loro, non lei, le prime a vedere il corpo di Ned all’obitorio. Loro, e l’inquietante, delirante Lucy Lint. Travolta dal proprio dolore, dall’incrinatura imprevista della propria vita perfetta, Alexandra tarda a rendersi conto che alcuni dettagli proprio non tornano, nella versione che le è stata proposta. Cosa ci faceva Abbie a casa sua alle cinque e mezzo del mattino? Perché la casa è così straordinariamente pulita? Come mai Ned, cinico scrittore e critico, stava guardando Casablanca la sera prima di morire? Perché Lucy sembra così disperata? E ancora, per quale motivo Ned sistematicamente parlava male di donne che adesso, dopo la sua morte, sembrano aver avuto con lui rapporti piuttosto intimi?
Fay Weldon utilizza una narrazione frammentaria, che procede attraverso la giustapposizione di scene e momenti. Per questo, almeno all’inizio, il lettore non riesce a farsi un’idea precisa del quadro generale, come se si trovasse di fronte ai pezzi di un puzzle non ancora assemblato, sparsi confusamente sulla tavola. Certo è che anche la protagonista, anche Alexandra, non riesce a vedere bene ciò che la circonda, vive in uno stato di ottundimento creato tanto dal vuoto improvviso, quanto dalle bugie, dalle ipocrisie degli altri e dalla propria stessa cecità.
Ammetto di aver scelto questo libro perché la trama mi ricordava l’inizio di un film molto amato, Le fate ignoranti di Ferzan Özpetek, che si interrogava sullo stesso tema: quanto poco conosciamo in realtà chi amiamo, quanta falsità ci possa essere all’interno di relazioni che appaiono consolidate. I presupposti, nel romanzo di Fay Weldon, sono gli stessi (“‘Sulla gente ci si può sbagliare’, disse Vilna. ‘Anche sulla persona che abbiamo sposato’”, p. 67); totalmente diverso è però il trattamento della materia narrativa. C’è infatti, nel testo, una ricerca del grottesco che può disturbare, anche se a tratti si aprono dei varchi che lasciano spazio a riflessioni serie sul lutto, la solitudine, il senso del matrimonio.
C’era una divisione molto netta tra il mondo in cui Ned era vivo e il mondo in cui Ned non lo era, e sembrava quasi indecente cercare di coniugare quei due mondi. “E poi Ned è morto”: era come un’ondata che irrompeva nella sala da pranzo e spazzava via ogni cosa, sparpagliando le cianfrusaglie familiari dappertutto, con gli schianti e i guizzi della sua violenta furia che avanzava. Sembrava quasi una scortesia cercare di rimediare e di ricomporre questo misero dettaglio. Avrà avuto paura? Oppure sarà successo tutto all’improvviso? (p. 34)
Sicuramente interessante è l’argomento affrontato, desta qualche perplessità lo stile. Forse si trarrebbe vantaggio, in questo caso, da una comparazione con la versione in lingua originale: la resa in italiano, caratterizzata dall’abbondanza delle frasi nominali, la sintassi che a tratti è franta e a tratti, al contrario, presenta ampi inarcamenti del periodo, può non essere apprezzata pienamente dagli amanti di una prosa più tradizionale. Inoltre, lo spirito caustico con cui l’autrice vuole riflettere sul cinismo e la doppiezza dei rapporti umani riesce a rendere i personaggi tutti ugualmente indisponenti: dal morto, Ned, che progressivamente appare sempre più giudicante e manipolatore; Abbie e Vilna, amiche-rivali incapaci di offrire vero sostegno; Lucy Lint, che oscilla tra lo squilibrio mentale, l’isteria e la perfidia; il fratello di Ned, Hamish, grande moralizzatore, arrivato per dare conforto e invece dispensatore di freddezza; e anche Alexandra, che si crogiola nelle sue illusioni e in un certo senso di superiorità, mentre cerca in tutti i modi di difendere la memoria di qualcosa che forse non è mai esistito. Solo in certi attimi, che pure si fanno nel procedere delle pagine sempre più frequenti, la donna inizia a intuire cosa si nasconde dietro la superficie, ma il più delle volte mette a tacere il buon senso prima che si radichi nella sua coscienza:
Forse non è per niente un vecchio barboso, penso Aleksandra. Forse è solo una delle tante cose che diceva Ned e che io accettavo senza neanche metterle in dubbio. [...] Forse ci sono una serie di cose che oggi penso, ma che in realtà erano idee di Ned e non mie. [...] il matrimonio è un intreccio terribile, un’osmosi spaventosa. Dovrò imparare di nuovo chi sono. (p. 95)
Nello svolgersi della trama, tanto più la donna inizia a maturare il desiderio di farsi carico della verità, tanto più la società inizia a colpevolizzarla in un modo che per il lettore risulta straniante e disturbante: il defunto è compianto da tutti, anche da chi in vita non lo aveva amato, mentre la vedova diventa l’oggetto del biasimo collettivo; ogni sua azione viene passata al vaglio, ogni suo gesto letto dall’esterno, per lo più in chiave malevola. Nella rete di relazioni che circonda un individuo, pare dirci il testo, non c’è nulla di vero, nulla che possa sopravvivere a uno sguardo che oltrepassi la superficie. Appena si guarda più a fondo, ecco che le peggiori paure si concretizzano e tutto si riduce, letteralmente, in cenere. C’è un chiaro obiettivo polemico nell’opera di Fay Weldon, che non è detto però arrivi a segno: si disperde nella trama e in dialoghi volutamente caricaturali, a tratti schiettamente surreali, e lascia in chi legge un senso di frustrazione. Solo la catarsi finale restituisce un senso alla lettura dell’intero volume, anche se forse non basta a compensare le sensazioni provate durante il percorso.
Carolina Pernigo