Quanto blu: il capolavoro di uno scrittore eclettico, mai uguale a sé stesso

Quanto blu
di Percival Everett
La nave di Teseo, gennaio 2020

Traduzione di Massimo Bocchiola

pp. 325 
€ 20 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

Tutto quello che vi dirò è vero, ma non ho idea di cosa sia essere vero. (p. 25)
Verità, menzogna. Segreti, soprattutto. Sono le verità indicibili i tre elementi chiave dell’ultimo bellissimo romanzo di Percival Everett, scrittore eclettico, raffinato, mai uguale a se stesso. Quanto blu è un racconto in prima persona, attraverso la voce del protagonista, Kevin Pace, artista di discreto successo, al lavoro su un ultimo segretissimo dipinto, una tela immensa per mezzo della quale provare a fare i conti con il proprio passato e i segreti che lo tormentano.
Tre tempi e luoghi che si alternano in capitoli intitolati Casa, 1979, Parigi, in cui si svelano pagina dopo pagina la storia di una vita, le ossessioni dell’artista, i peccati dell’uomo. Le crisi, i problemi di un matrimonio che dura da trent’anni, l’inquietudine per un’esistenza che avrebbe tutte le carte in regola per dirsi felice ma che non sempre è tale. Everett costruisce un romanzo perfetto, che coniuga una prosa elegante e puntuale a una trama intrigante, ricchissima di spunti di riflessione e momenti di profondità con cui il lettore è chiamato a confrontarsi. Lo fa offrendoci una storia piena di umanità, di debolezze, talvolta dolorosa, dominata dal colore e dallo sguardo dell’artista che ce la racconta, parziale e soggettiva per sua natura.
È il tentativo di venire a patti con le proprie scelte, del passato quanto del presente, rispondere alla domanda su chi siamo davvero e cosa di noi decidiamo di mostrare al mondo, cosa ci definisce, quale maschera indossiamo.
Quella dell’artista di successo, egocentrico e raffinato, che nasconde un problema di alcolismo; quella del responsabile padre di famiglia, ma quasi sempre sconnesso dalla quotidianità, che si ritrova unico destinatario del segreto più grande della figlia sedicenne; quella dell’amico di una vita che accorre senza fare domande, e tiene sepolta sotto strati e strati di normalità la parte più oscura e terribile del proprio passato; quella del più classico fra i cliché, l’uomo di mezza età che intreccia una relazione clandestina con una donna tanto più giovane di lui, senza provare il minimo senso di colpa. Tre piani temporali, tre luoghi, tre segreti. Nel mezzo, una vita intera

Osservare e ascoltare Kevin Pace, seguirlo tra Parigi, El Salvador, Philadelphia, ci avvicina sempre di più a lui, questo narratore inaffidabile, egocentrico, umanissimo, ma soprattutto, nel racconto di una vita, la sua, ci permette di spingere la riflessione oltre i confini della narrazione per confrontarci con sentimenti e problematiche universali ancora una volta mediante una storia di cui ognuno sceglierà consapevolmente o meno la propria chiave di lettura. L’eco di William Stoner – una vita ordinaria resa straordinaria dalla Letteratura – o l’egocentrismo di Barney, Kevin Pace è entrambi e non è nessuno, come Percival Everett è tutti gli autori che ha letto e la tradizione letteraria statunitense che l’ha preceduto e, ugualmente, non è niente di questo, capace ogni volta di reinventare la propria scrittura e sorprendere il lettore. È una delle gemme più preziose fra gli scrittori americani contemporanei e questo romanzo, a mio avviso, il suo capolavoro.

In un mondo dove tutto è politica o, ancora peggio, politicamente corretto, Everett da afroamericano rifiuta perfino di concentrarsi sul tema dell’identità razziale, lasciando la questione ad altri bravissimi narratori del nostro tempo – come Colson Whitehead o Zadie Smith, tanto per citarne due – e il colore della pelle diventa un dettaglio sullo sfondo, qualcosa cui accennare brevemente – e solo perché funzionale alla trama. Ecco, non so bene come sia accolta la questione negli Stati Uniti, un autore afroamericano che non metta al centro della propria narrazione la questione razziale, ma per quel che mi riguarda Everett è eccezionale anche per questo rifiuto più o meno consapevole.

Kevin Pace è un artista, questo lo identifica, Percival Everett ne racconta la vita, le cadute, i dubbi, le incertezze e gli sbagli, il tentativo di venire a patti con le proprie scelte e quei segreti di cui, suo malgrado, è diventato custode, che ne definiscono l’esistenza, l’identità, il ruolo nella sua famiglia. C’è una figlia adolescente che resta incinta e lo confessa proprio a lui, quel padre assente, isolato nel suo mondo di colore e ossessioni: 
“Tua figlia, l’adolescente che credevi non sapesse manco che esisti, o perlomeno non gliene importasse, ha scelto in tutto il mondo proprio te per raccontare il segreto più importante di tutta la sua vita fin qui”. (p. 79)
La promessa di non rivelare il suo segreto, contro ogni buonsenso, solo perché April ha scelto proprio lui, suo padre, per custodirlo. Lui, che nella propria famiglia è sempre stati più una comparsa che un attore protagonista, troppo egocentrico e chiuso nella sua torre d’avorio di artista per rendersi veramente conto delle persone accanto a lui, di quello che si aspettano, eppure non lo si potrebbe nemmeno accusare di completa indifferenza, o cattiveria. Semplicemente, Kevin Pace è inadeguato al ruolo. Lontano perfino da sé stesso, a volte. Chiuso in quello studio dove non lascia entrare nessuno, al lavoro su un’opera grandiosa che ha deciso di non mostrare mai, perfino di distruggere un giorno. Quell’opera che sono i suoi segreti tutti, proprio lì sulla tela. Quello di April di cui si fa custode tenendo all’oscuro la madre, escludendola in un misto di orgoglio e paura, nella sciocca illusione che sia importante non infrangere la promessa solenne e godere della vicinanza che un comune segreto ha creato fra padre e figlia. Un altro segreto tanti anni prima, a Parigi, dove era stato così facile cedere alla lusinga di un giovane amore, vedersi negli occhi di lei e avvertire tutta la purezza, la libertà, di una vita non ancora corrotta:
[…] ad attirarmi non era la sua giovinezza. Francamente non sono neanche sicuro che mi affascinasse tutta quella genuinità, quel suo essere senza peccato, la sua irreprensibilità, che erano tutte mie costruzioni. In verità non è che volessi lei: volevo quello che lei aveva, una specie di libertà, una purezza di spirito. Era, direi, un’integrità, un qualcosa per cui avevo lottato, ma che avevo perduto durante tanti anni, o forse mai avuto. (p. 119)
Non è il capriccio di un momento, la crisi di mezza età, un matrimonio frustrante. Non solo, almeno. È il peso per Kevin Pace di essere Kevin Pace, il desiderio di assorbire un po’ di quella fresca purezza della giovane amante francese.

Il segreto più indicibile è quello del trauma vissuto a El Salvador tanti anni prima quando ancora ragazzo aveva accompagnato il suo migliore amico, Richard, a cercare quel disgraziato del fratello, per ritrovarsi in un Paese sull’orlo della guerra civile. Violenza, paura, caos. Che cosa saremmo disposti a fare per salvarci? Quella di Kevin non era stata una scelta, ma un istinto. Ma è quello che ha fatto il terribile segreto che si porta dietro da tutta la vita, il trauma di quei giorni a El Salvador? In parte, ma è anche quello che ha visto, un evento marginale nell’ordine generale delle cose, ad averlo segnato tanto profondamente. Partecipe di un dolore privato che solo anni dopo con l’esperienza della vita e il ruolo di marito e padre potrà provare a comprendere meglio, Kevin si fa custode di una sofferenza indicibile e un momento di straordinaria connessione umana in contrasto con l’orrore e la solitudine del luogo. Un lampo di luce, come scoprire la bellezza in quell’angolo di inferno:
Guardai l’acqua a sinistra, e per la prima volta mi resi conto di quanto fosse bello. In superficie c’era del movimento e un po’ di vita. Mi sentii di legno per non essermi accorto prima della sua bellezza. E anche allora mi chiesi se averlo scoperto non fosse una specie di riflesso auto-conservativo, un tentativo di esclusione del mondo immediato in cui mi trovavo. Mi concentrai sul colore dell’acqua senza riuscire a classificarlo. Non è verde, pensai, e così capii che dentro c’era del verde, ma era blu, era verde quanto può esserlo un blu restando blu. In tutta spontaneità neghiamo la presenza di cose che in effetti ci sono o dovrebbero esserci. (p. 206)
Fare i conti con quanto accaduto, con quello che si è visto e sepolto in fondo a sé stessi e proprio da lì partire per costruire la vita.
Ancora una considerazione, che non approfondirò per non negare ai lettori il piacere della scoperta ma che merita almeno un accenno: delle molteplici chiavi di lettura, spunti, riflessioni di cui è ricco questo romanzo, il rapporto tra Kevin e Linda, sua moglie, è un piccolo miracolo di scrittura e umanità, che si comprende appieno nell’ultima, perfetta, pagina del romanzo. Ecco, pagine come quella, valgono una storia intera.

Di Debora Lambruschini



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