Lo diciamo a Liddy? Una commedia agra
di Anne Fine
Adelphi, 2002
pp. 185
€ 8,50
Titolo originale: Telling Liddy. A Sour Comedy
Traduzione di Olivia Crosio
Ho sempre amato Anne Tyler per le sue storie minime, articolate intorno a piccoli eventi, attente a ricostruire la psicologia dei personaggi e la complessità delle dinamiche relazionali. In questo breve romanzo del 1998, la trama si riduce ulteriormente, di fatto articolandosi intorno e attraverso un fitto alternarsi di dialoghi. A confrontarsi, discutere, chiacchierare, bisticciare, fare illazioni e progetti, sono quattro sorelle: Bridie, assistente sociale sempre pronta a preoccuparsi per tutto; l’ambiziosa ed egocentrica Heather, che si è sempre realizzata nello studio e nel lavoro; Stella, assorbita dalla vita mondana e dalle sue frivolezze; e infine Liddy, la più giovane, “la beniamina di tutti. Aveva qualcosa di speciale, una capacità innata di prendere tutto come un gioco e rendersi la vita facile. Come un cucciolo. Se ne avevi bisogno, era capace di diventare seria nel giro di un nanosecondo: ascoltava e capiva, offriva buoni consigli, aiuto e conforto. Ma per il resto del tempo era semplicemente una persona da guardare con piacere mentre viveva a un palmo da terra” (p. 21). È intorno a Liddy che ruota l’inizio della storia, a partire da un pettegolezzo sussurrato da una domestica e che viene rivelato già alla seconda pagina del volume, gettando ombra su tutte le successive: “Ma... è ridicolo! Quella ti viene a dire che il fidanzato di tua sorella forse è un pedofilo, e pretende che tu non ne faccia parola con nessuno? Neppure con Liddy? Potrebbe interessarle, non credi?” (p. 12). Dopo una separazione improvvisa e inspiegabile dal primo marito, la sorella minore ha infatti trovato la felicità con il sorridente George Rigsby, che pare essere l’uomo perfetto e ricopre di attenzione lei e i suoi due bambini, Edward e Daisy. Peccato che sul suo passato gravi il peso di un’accusa terribile, di un processo concluso con un’assoluzione per insufficienza di prove. Stella, Heather e Bridie si trovano dunque custodi di un segreto sgradito e devono decidere se e come rivelarlo a Liddy, con il rischio di compromettere la sua serenità e, forse, di accusare invano un innocente.
Nonostante l’argomento sia drammatico, non è un dramma quello che sviluppa Anna Fine, bensì, come riferisce il sottotitolo, una commedia agra, che vuole indagare e sviscerare le ambiguità del rapporto tra sorelle. Le quattro protagoniste infatti non potrebbero essere più diverse le une dalle altre e le loro conversazioni sono fitte di schermaglie in cui la reale colpevolezza o meno di George diventa solo uno degli oggetti del contendere, forse addirittura il meno rilevante, anche se sicuramente quello che esacerba tensioni preesistenti e fa conflagrare le differenze tra i caratteri. Perché “al mondo non c’è niente di più indigesto della verità” (p. 90) e quando Liddy la scopre la polveriera di recriminazioni e accuse reciproche non può che esplodere in faccia al messaggero, andando a incrinare gli equilibri consolidati. L’analisi dei sentimenti delle protagoniste, in cui Fine come sempre eccelle, in questo romanzo è spesso indiretta e veicolata dalle conversazioni, o attraverso l’adozione di una focalizzazione interna sui personaggi, in particolare su Bridie, che sembra la più stabile, la più responsabile del nucleo famigliare, e quindi è anche quella che subisce maggiormente le conseguenze dello scontro.
Il legame, sempre oscillante tra affetto e rancore, tra le quattro Palmer è incomprensibile a chiunque si muova nella loro orbita senza farne parte:
“Non lo so. Io la tua famiglia non la capisco. Non capisco perché debba essere sempre tutto così importante. Perché dobbiate avere tutti questi gran sentimenti. E non capisco perché, da adulti, bisogna continuare a considerare speciali i parenti. Che cosa avete in comune tu e Stella? Niente. [...] Heather è un’egoista fatta e finita. L’unica con cui ci si poteva fare una bella risata era Liddy” (p. 75)
Anna Fine, con la consueta intelligenza narrativa, è abile a mostrare le diverse facce della medaglia, i lati negativi di una relazione troppo stretta, che finisce per soffocare le personalità dei singoli. Così, l’allentarsi dei rapporti tra le protagoniste potrebbe essere occasione, per una di loro, di ridare vita a un matrimonio stanco, o di capire qualcosa di più su di sé, di imparare a vivere la propria vita, dando finalmente spazio alla propria famiglia piuttosto che a quella di origine:
Che gioia! Che felicità! Che sollievo enorme e irreversibile! Quanta parte della sua vita, della sua personalità, era stata assorbita dagli altri? La sua famiglia era stata come un gigantesco albero dai rami che arrivavano rasoterra, alla cui ombra non poteva germogliare nient’altro. Ma ora, al sole, era tutto diverso. (p. 154)
Ma sarebbe troppo facile. È a quest’altezza, più o meno a metà del romanzo, che si chiariscono le intenzioni dell’autrice, prima piuttosto vaghe: quello che diventa progressivamente certo, è che Anne Fine non vuole scrivere un romanzo di formazione. Piuttosto un romanzo di anti-formazione, un romanzo di disillusione. La riflessione si fa pungente, mentre ci si rende conto che le cose non sono come sembrano e che la serenità del gruppo si basava su un castello di menzogne e ipocrisie. L’opera, che, nel complesso, rimane non del tutto riuscita per un certo squilibrio tra le parti, ha il sicuro pregio di non essere banale, nella scelta amara di accompagnare Bridie nel processo di decostruzione delle sue certezze e di costruzione di una identità e di una vita nuova, anche a costo di diventare più cinica e più dura e, forse, di vendere la propria anima per avere finalmente una giusta vendetta.
Carolina Pernigo