Desiderio
di Giorgio Montefoschi
La nave di Teseo, 2020
pp. 324
€ 19,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
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Livia e Matteo si conoscono da giovani, nel giro della compagnia composta da giovani della buona borghesia romana. Si piacciono, si stuzzicano, come capita alle cotte adolescenziali nell'estate che sa di cuore di panna.
Poi la vita prosegue, ci sono trasferimenti, matrimoni, figli, morti di genitori e la loro passione resta sottesa per decenni, esplodendo all'improvviso o cristallizzandosi, in base al momento, in base alla situazione. Dagli anni Sessanta al nuovo millennio, con una Roma sullo sfondo che farebbe innamorare chiunque, i due si cercano e si lasciano. Ma facciamo attenzione: non c'è nulla di epico, magico o contrastato in questo amore. Ci sono le lunghe conversazioni, il passaggio delle stagioni e il susseguirsi di situazioni che riflettono ciò che da sempre ci fa più paura in assoluto: la normalità. E nel caso di Desiderio parliamo di una normalità quanto mai magistrale.
Giorgio Montefoschi, in questo romanzo dall'asciutto impianto dialogico, mette in scena una delle situazioni più normali che possiamo pensare: la storia di una relazione clandestina che non ha il coraggio di diventare un grande amore. Livia Ceriani e Matteo Gennari non sono divisi da faide familiari, catastrofi, eventi che li strappano l'uno dalle braccia dell'altra. Sono due persone che, pur con tutta l'attrazione reciproca che provano, non hanno mai il coraggio di scegliere una strada diversa. Perché è più semplice andare a Londra a fare un corso di lingua e lì restare; è più facile studiare Lettere e dedicarsi al giornalismo dove già ci sono agganci, anziché lottare per la carriera accademica che si è sempre sognata. Si può sposare la sorella minore di uno dei nostri migliori amici invece di saltare sul primo volo per lottare per la donna che si dice di amare. Ed è ancora più semplice lasciarsi andare a una torrida relazione sentimental-sessuale quando l'oggetto del nostro desiderio è a due isolati di distanza. Livia e Matteo non sono schiavi del loro desiderio carnale, come il titolo e la copertina parrebbero suggerire a una prima lettura, ma del loro: "Vorrei tanto ma non ci riesco". Lasciandosi, in un certo senso, vivere, invece di prendersi la responsabilità delle loro decisioni, sono personaggi che danno un volto alla normalità in cui tutti noi viviamo. Ci piace leggere di sentimenti contrastati e grandi gesta per poterci nascondere dietro lo schermo del: "Ma questo succede solo nei libri". Tuttavia, quando dalle pagine di un libro vediamo uscire la più verosimile normalità, non possiamo fare a meno di sentirci piccoli e provare quel desiderio delle strade alternative ai bivi della vita.
Il romanzo è diviso in tre parti: tre fasi della vita in cui si consuma (oppure aspetta) la passione e il cercarsi di Livia e Matteo. Giovani appartenenti alla buona borghesia romana degli anni Sessanta, poi adulti avviati a carriere sicure o prestigiose e infine maturi nel nuovo millennio che paiono non aver imparato nulla dai decenni precedenti. Non c'è mai un'indicazione di anno: la scansione temporale è affidata ai riferimenti delle opere letterarie o cinematografiche. Così la prima parte sappiamo essere ambientata nel 1962 perché
Matteo intanto aveva raggiunto suo padre.
"Che stai leggendo?" Spiò le pagine del libro abbassato sui ginocchi
"Ferito a morte di Raffaele La Capria. Il premio Strega dell'anno scorso." (p. 27)
La seconda parte è del 1987 perché è appena uscito il film di Ettore Scola La famiglia e infine, la terza parte si svolge nel 2002 quando al cinema appare L'amore infedele e Il pianista. Una scansione temporale comunicata in maniera raffinata ed estremamente legata agli sviluppi culturali.
Difficile trovare romanzi dove l'impianto dialogico sia così predominante, così asciutto eppure così potente: anche le conversazioni che paiono affrontare solo argomenti minuti e della vita di tutti i giorni, come nei dialoghi di Hemingway, nascondono vari livelli di sottotesto. In poche battute abbiamo precisi fotogrammi sulle relazioni tra i personaggi senza necessità di orpelli.
La tramontana, che adesso soffiava più forte, faceva tremare i vetri.
"Sentila!" Anna si strinse nelle braccia.
"Arriva direttamente dalla Russia." Matteo le versò il vino rosso.
"Dalla Russia?"
"La tramontana è un vento di nord-est. In Russia si chiama burin, a Trieste diventa bora, e qui tramontana... Hai uno sbaffo di vino...""Ora?" si pulì con la salvietta.
"Non c'è più."
"Indovina chi ci ha telefonato?"
"Non lo so."
"Mario."
"È a Roma?"
"No. Viene venerdì prossimo e chiede di essere invitato a cena."
"Invitalo."
"L'ho già fatto." (p.123)
I dialoghi hanno un'alternanza serrata senza troppe concessioni all'ambiente esterno ed è proprio grazie a questo che, quando alziamo lo sguardo oltre gli occhi dei personaggi, Roma si apre davanti a noi. La capitale, pur schernita da una giovane Livia che la considera provinciale, è tratteggiata con precisione e amore per accompagnare anche il lettore che non la conosce, tra le sue vie.
Fuori, nel silenzio rarefatto, scrosciava l'acqua della fontanella vicina al sarcofago romano addossato al muro di confine del Giardino degli Aranci. Due suore con un velo corto in testa, la gonna a metà gamba, i piedi nudi nei sandali, dirette al convento delle benedettine camaldolesi, discutevano animatamente. Nel Ghetto, i camerieri dei ristoranti kosher disponevano le tovaglie sopra i tavolini all'aperto. Rispetto a Campo de' Fiori, alla confusione, alle voci intrecciate, ai richiami provenienti dalle bancarelle del mercato domenicale, via di Monserrato con i suoi palazzi grigi, le finestre alte, i portoni antichi, sembrava un'isola di quiete. (p.174)
In una Roma così dipinta, ma così concreta, quel gruppo di amici della buona borghesia cresce e si avvia a vite di straordinaria normalità sempre consumati dal desiderio delle strade che non hanno intrapreso: sia che si parli del lottare per il grande amore della propria vita, sia per riuscire anche solo a portare a termine la lettura di Anna Karenina.
Giulia Pretta