La bambina e il nazista
di Franco Forte e Scilla Bonfiglioli
Mondadori, 2020
pp. 308
€ 19,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
€ 9,99 (ebook)
In occasione della giornata della Memoria, è uscito per Mondadori un volume dedicato al tema della Shoah, firmato a quattro mani da Scilla Bonfiglioli e Franco Forte, già noto per i suoi romanzi storici ambientati nell’antica Roma. Il principale errore compiuto nella pubblicazione dell’opera è stato, a mio avviso, la scelta del titolo, che risulta stucchevole e pare coniato appositamente per attirare un pubblico in cerca di emozioni facili, andando così a penalizzare di fatto il romanzo, mettendone in discussione la qualità ancora prima della lettura. Il che è un peccato, perché La bambina e il nazista è un libro che si fa leggere: ha una trama scorrevole, personaggi ben caratterizzati, motivazioni credibili e una ricerca storica che dà alla narrazione uno spessore e una verosimiglianza sufficienti; le imprecisioni che si possono riscontrare, per esempio le condizioni della cittadina di Osnabrück durante la seconda guerra mondiale, di fatto non incidono sulla narrazione e non disturbano chi non sia davvero esperto dell’argomento.
Soprattutto, gli autori riescono a problematizzare quella che è una situazione impossibile: il personaggio principale non può conciliare i suoi sentimenti con la sua posizione senza compromettersi personalmente a livello morale, senza compiere azioni a loro volta inaccettabili.
Ma procediamo con ordine, questa la storia: il tenente Hans Heigel è un burocrate di medio livello, che ha passato i primi anni del secondo conflitto mondiale in ufficio, guardando quindi alla realtà del nazismo da una posizione decentrata, periferica – anche geograficamente visto che, nella finzione romanzesca, Osnabrück sembra essere un luogo ameno e appena toccato dagli echi bellici. Nel ricevere notizia delle derive sempre più estreme del regime, Hans prova un crescente senso di disagio, avvertendo la propria ipocrisia: “Si scoprì a sorridere. Un sorriso amaro che si portava dietro sfumature di vergogna, perché non solo lui non faceva niente per opporsi a quella follia, ma anzi abbassava la testa e dormiva lo sguardo per uniformarsi al colore di piombo che vedeva negli occhi di chi gli stava intorno” (p. 11). È però principalmente un evento traumatico e inaspettato a smuoverlo da una situazione di inerzia esistenziale. Quando la figlia piccola di Hans palesa i sintomi di una tubercolosi in fase acuta, il morbo che la corrode da dentro si fa specchio del male morale che divora il padre:
Hans lo guardò, ricordando che quando era tornato a casa si era sorpreso dell’assenza di musica. Eppure, venire accolto dalla dolcezza ingannevole di un lied sarebbe stato appropriato: una patina di perfezione sopra qualcosa di orribile. Wagner che copriva i bollettini di guerra alla radio, una casa che era l’immagine dell’ordine e della pulizia, una città che sembrava piena di pace, come cristallizzata in un sogno. E una malattia orrenda che si insinuava nella creatura più dolce e più bella che avessi mai colpito. (p. 22)
Morendo, Hanne di fatto diventerà per il protagonista la voce correttiva della coscienza. Soprattutto quando, a Sobibór, l’uomo dovrà fare i conti con gli abissi più profondi della malvagità, osservare da vicino i meccanismi dello sterminio.
È nel campo che, un giorno, il tenente incontra la piccola Leah Cohen, una bambina ebrea che assomiglia in modo incredibile ad Hanne. Nella mente stravolta del padre, svuotato di ogni energia, le due figurine si sovrappongono e salvare Leah diventa un modo per restituire alla vita la figlia morta. Il problema è che, all’interno del lager, questo non può essere fatto a buon prezzo e Hans sarà costretto a scendere a patti sempre più difficili da accettare – per lui, come per il lettore.
Non si può dire altro, per non rovinare la fruizione del testo. Si può però indugiare un istante sulle problematiche sollevate da Forte e Bonfiglioli, al di là del semplice sviluppo della trama: quella della complicità con il male, del rischio di accettarlo come norma, e quindi di sacrificare definitivamente la propria umanità sull’altare di un ideale imposto; quella della connivenza tacita, della mancata assunzione di responsabilità da parte di tante pedine del Reich; il tema della disumanizzazione dell’altro, ma anche quello antitetico della necessità di riconoscerne l’individualità come veicolo di salvezza, per lui e per se stessi; quello delle contraddizioni del regime nazista, quello delle infinite storie dimenticate delle vittime. E si potrebbe andare avanti, sottolineando come la lettura di questo volume possa lasciare qualcosa in termini di riflessione.
Ma. Perché un ma c’è: con tutta la saggistica, il materiale documentaristico, con tutte le testimonianze dirette e le narrazioni nate direttamente dall’esperienza dei campi, leggere romanzi contemporanei sul tema sembra una sottrazione di risorse a una più alta ricerca di conoscenza.
Riemerge prepotente il pericolo della banalizzazione, o della spettacolarizzazione, dell’Olocausto, in cui si rischia di ricadere ogni volta che si realizza un prodotto di consumo sul tema, fosse anche un prodotto letterario. Per il lettore che cerchi un’informazione vera e profonda, che desideri contribuire alla difesa e alla perpetrazione della Memoria, questo non è il volume adatto. Non per questo però, è necessario squalificarlo a priori: quello che serve, è una definizione preliminare degli obiettivi della lettura, una delimitazione più precisa di un pubblico che non chieda al libro qualcosa che il libro non pretende di essere. Perché La bambina e il nazista, come si diceva, è un’opera ben scritta, rivolta al grande pubblico, che vuole spingere al ragionamento attraverso una trama ben ideata e alcuni pungoli alla coscienza proposti in modo indiretto e mai pedante. Non è forse particolarmente innovativa nelle intenzioni e nello stile (in questo differisce, per esempio, da quel romanzo particolarissimo, anche se ugualmente emotivo, che è Storia di una ladra di libri), ma chi avrà l’onestà intellettuale di aspettarsi solo quello che il testo promette non resterà certo deluso.
Carolina Pernigo